L’arte può ancora cambiare il mondo?

Se l’arte esce dai suoi recinti e torna a far parte della realtà, allora può mettere in scacco le logiche “fighette”. E anche fare i conti con il dolore

Il nucleo non sta nel pensare che l’arte debba o possa ‘uscire’ dal (comodo?) recinto in cui si è rinchiusa – il nucleo sta nel capire che non c’è nessun recinto da cui fuoriuscire.
Risiede cioè nel comprendere che cosa può fare l’arte, una volta abbandonati gli schemi legati all’“opera” come oggetto che deve essere esposto all’interno di uno spazio pre-definito, che a sua volta è l’unico spazio riservato all’arte. Vale a dire: se l’arte invece di essere ‘separata’ – come è tuttora: nella galleria, nella fiera, nella biennale, nel museo – entra (cioè, ritorna) a far parte del mondo, si mescola con la pasta della realtà perché di fatto è parte integrante della realtà, allora l’opera e il suo autore possono fare letteralmente qualunque cosa.
Soprattutto, diviene possibile abbandonare l’insopportabile e paralizzante posa dell’archivista nostalgico, dell’edonista disperato, del consumatore cinico: vale a dire, l’opera e il suo autore hanno di nuovo una chance di poter cambiare le cose.
(…) anche le simulazioni più abiette dello stile post punk portano con sé una certa carica spettrale, una richiesta (sempre tradita dai suoi simulacri) che la musica rappresenti qualcosa di più che consolazione, convalescenza o divertimento. Una volta raggiunta la fine della storia, le impasse della politica sono riflesse alla perfezione dalle impasse della popular music. Così come la lotta politica ha ceduto il passo a futili litigi su chi debba amministrare il capitalismo, nella musica pop l’innovazione è stata soppiantata dalla retrospezione: in entrambi i casi, l’esagerata ambizione di cambiare il mondo si è convertita in pragmatismo e carrierismo. In generale, predomina una sorta di ‘saggezza’ depressiva. Forse un tempo è sembrato che le cose succedessero davvero, ma non ci faremo fregare di nuovo” (Mark Fisher, Le tendenze militanti nutrono la musica, in Scegli le tue armi. Scritti sulla musica / k-punk 3, minimum fax, Roma 2021, pp. 222-223.)
Sostituire “popular music” con “arte contemporanea”.
Uscire dall’isolamento. Riconnettere.

Serena Semeraro, (Der) Spiegel, digital painting, 2020-2021

Serena Semeraro, (Der) Spiegel, digital painting, 2020-2021

L’IMPORTANZA DEL DOLORE

Non essere più spettatori significa abbandonare la prospettiva “fighetta”: quella che ci rinchiude in ‘nicchie’ o ‘bolle’ configurate a loro volta attorno a gusti predeterminati ed eterodiretti; quella che impone la costante conferma del già noto, di ciò che già mi piace (e che dunque sarà quanto di più lontano possibile dall’ignoto, dallo sconosciuto: dal nuovo).
Se ci pensiamo, la likeability – la logica del ‘mi piace’ applicato ai contenuti culturali così come alle identità personali – è il frutto di un’attitudine irriducibilmente, e anche nevroticamente, conservatrice. Voglio e desidero a tal punto piacere, essere approvato e accettato, che a questo sacrifico ogni asperità, ogni contraddizione, ogni conflitto. Asperità contraddizioni e conflitti sono sintomi di negatività, e la negatività proviene dal dolore ma porta anche dolore. Un’ottica che rifugge costantemente da ogni forma di dolore, si sta privando anche di qualunque possibilità di comprensione, di interpretazione di contemplazione (le “zone morte contemplative” di cui parlava Ottiero Ottieri), e di trasmissione di questa comprensione, di questa interpretazione e di questa contemplazione. La trasmissione della comprensione/interpretazione/contemplazione è una dimensione fondamentale, perché coincide di fatto con l’immaginazione del presente e del futuro: “Senza dolore è impossibile apprezzare il mondo sulla base di differenziazioni. Il mondo senza dolore è un inferno dell’Uguale in cui imperversa l’indifferenza che fa scomparire l’incomparabile. Il dolore è realtà” (Byung Chul-Han, La società senza dolore. Perché abbiamo bandito la sofferenza dalle nostre vite, Einaudi, Torino 2021, p. 44); “Senza dolore non è possibile alcuna conoscenza capace di rompere radicalmente col passato. Anche l’esperienza nel senso enfatico del termine presuppone la negatività del dolore. (…) La negatività del dolore è costitutiva del pensiero. È il dolore a distinguere il pensiero dal calcolo e dall’intelligenza artificiale. Intelligenza significa scegliere tra (inter-ligere). È la capacità di distinguere. Per cui non abbandona ciò che esiste già. Non è in grado di creare il completamente Altro. In ciò si differenzia dallo spirito. Il dolore approfondisce il pensiero. Non esiste un calcolo profondo. In cosa consiste la profondità del pensiero? Al contrario del calcolo, il pensiero crea uno sguardo diversissimo sul mondo, proprio un altro mondo. Solo la vita che vive, che è capace di provare dolore riesce a pensare” (ivi, pp. 53-54).
L’ottica del “calcolo”, dell’efficienza, della performatività, del culto del risultato è un’ottica che vive di riflessi, che a loro volta riflettono altri riflessi: un’ottica spettrale.
Non sto mai affrontando la cosa in sé (per quanto appunto doloroso, faticoso, urticante per l’identità mia e altrui questo confronto possa risultare), ma sto continuamente adottando la posa di colui che interpreta, che riflette su se stesso e sulla realtà: tutto il processo gira a vuoto, non porta mai da nessuna parte perché si muove solo e soltanto nel territorio della rappresentazione.
Questo è il meccanismo di fondo che regola l’opera dell’artista fighetto.

Christian Caliandro

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Christian Caliandro

Christian Caliandro

Christian Caliandro (1979), storico dell’arte contemporanea, studioso di storia culturale ed esperto di politiche culturali, insegna storia dell’arte presso l’Accademia di Belle Arti di Firenze. È membro del comitato scientifico di Symbola Fondazione per le Qualità italiane. Ha pubblicato “La…

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