Gli artisti e la questione del dolore

In un mondo in cui tutto deve essere piacevole e instagrammabile, anche l’arte rischia di essere vittima della likeability. Un invito agli artisti a riabilitare la sofferenza nel loro lavoro

E quindi, in media, l’artista appare molto poco attrezzato in questo momento per la “lotta culturale”, per portare avanti insomma ciò che suggeriva un mese fa su Facebook Bertram Niessen nel suo post: “Poi cosa ti vuoi stupire se il mondo brucia e ci ritroviamo con gente coltissima, studiatissima, intelligentissima che passa tutto il tempo a fare il nazigrammar, a fare pornografia della fragilità e a ragionare sul font delle copertine dei libri. La cultura è uno sport da combattimento, ma per farti venire voglia di fare a mazzate un po’ di milieu ci vuole” (su Facebook, 24 ottobre 2022).
Esattamente: cosa ti vuoi stupire? Perché poi il “fare a mazzate” – artistico, culturale – si nutre di tutta una serie di esperienze personali e collettive, di un background abbastanza specifico, ma anche se vogliamo di un modo di stare al mondo e di intendere la realtà; e, inoltre, di un modo in cui la realtà intende noi stessi.
Se, come ci dice Byung-Chul Han, viviamo ormai in una “società palliativa”, diventa sempre più difficile acquisire un’attitudine combattiva, orientata cioè al cambiamento e a utilizzare l’arte e la cultura per produrre questo cambiamento: “La società palliativa coincide con la società della prestazione. Il dolore viene interpretato come un segno di debolezza, qualcosa da nascondere o da eliminare in nome dell’ottimizzazione. Esso non è compatibile con la performance. La passività della sofferenza non ha alcun posto nella società attiva dominata dal poter fare (…) La società palliativa è inoltre una società del mi piace, che cade vittima della mania di voler piacere. Ogni cosa viene lucidata finché non suscita approvazione. Il like è l’emblema, il vero e proprio analgesico della contemporaneità. Non domina solo i social media, ma anche tutti gli ambiti della cultura. Nulla deve fare più male. Non solo l’arte, ma anche la vita stessa dev’essere instagrammabile, ovvero priva di angoli e di spigoli, di conflitti e contraddizioni che potrebbero provocare dolore. Ci si scorda che il dolore purifica, emana un effetto catartico. Alla cultura della compiacenza manca la possibilità della catarsi” (ne La società senza dolore. Perché abbiamo bandito la sofferenza dalle nostre vite, Einaudi 2021, pp. 7-8).

Maria Palmieri, No Cap Ghetto di Andria, 2022

Maria Palmieri, No Cap Ghetto di Andria, 2022

ARTE. LIKEABILITY E SOFFERENZA

Ecco, il dolore. La sofferenza è costantemente rimossa non solo dalla nostra esperienza quotidiana, ma anche e soprattutto dalla sua rappresentazione, dalla sua proiezione esterna: nonostante ne sia, ovviamente, parte integrante. Manca però, appunto, la “catarsi” (ce ne vengono offerte nell’arte contemporanea solo versioni caricaturali, da barzelletta, completamente orientate all’efficienza, versioni già impacchettate e che si presentano così solo perché forse all’autore è sempre molto piaciuto il termine stesso ‘catarsi’; ma viene il fondato sospetto che non abbia mai ben capito in che cosa consista veramente, che cosa sia questa famosa catarsi, e come vada impiegata e vissuta…). E dunque, il dolore senza catarsi è del tutto è spuntato, senza senso, senza sbocco, senza elaborazione e senza evoluzione.
L’artista dunque, con il suo milieu, si trova sospeso tra due modelli di esistenza e di comprensione della realtà opposti, incompatibili e incommensurabili l’uno con l’altro: il modello dominato dagli “esercenti” (Walter Siti), cioè dal culto del profitto e del risultato pratico, dalla likeability, dall’efficienza e della performance a ogni costo; e quello a cui dà forma il dolore, con il suo portato di meditazione, di ricerca, di sperimentazione e di costante digressione anti-efficiente, anti-profitto, anti-risultato-concreto. Sono due modelli e due disposizioni incompatibili perché “la passività della sofferenza” non trova posto in un mondo in cui a ogni azione deve necessariamente corrispondere un risultato, e questo risultato deve per giunta ottenere una gratificazione immediata; in un mondo in cui la “positività” è una sorta di dittatura fastidiosissima, che espelle ogni atteggiamento differente e che esclude ogni disagio autentico (a meno che, ovviamente, non sia una forma di disagio “che funziona”, che va bene, cioè inautentico e che si possa incasellare all’interno del codice egemone, e che soprattutto sia immediatamente rappresentabile e postabile, nella forma più semplificata possibile mi raccomando, in modo da poter ottenere ancora, di nuovo, il maggior numero di like e di consenso…).
E allora, che strada prende o prenderà l’artista di oggi? Si consegnerà mani e piedi alla likeability, alla finzione levigata, oppure ritornerà – ammesso poi che abbia bisogno di tornarci, e che non sia già lì invece, come in alcuni casi ‘felici’ certamente è… ‒ a un’arte piena di contraddizioni, di ambiguità, di disturbo e di difficoltà, a un’arte radicale e radicalmente estranea, altra?

Christian Caliandro

Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati

Christian Caliandro

Christian Caliandro

Christian Caliandro (1979), storico dell’arte contemporanea, studioso di storia culturale ed esperto di politiche culturali, insegna storia dell’arte presso l’Accademia di Belle Arti di Firenze. È membro del comitato scientifico di Symbola Fondazione per le Qualità italiane. Ha pubblicato “La…

Scopri di più