Marisa Merz: il ricordo del critico e curatore Giorgio Verzotti

Giorgio Verzotti ricorda l’artista Marisa Merz recentemente scomparsa. Da Rivoli a Documenta, un racconto sull’opera e la donna nelle parole del critico

Ci siamo sempre dati del lei. Sarà strano, nel mondo dell’arte, ma è così. Anche con Lea Vergine, sempre del lei. Mi viene automatico, con le signore, ma mentre con Lea mi viene perché la riconosco come una mia maestra, con Marisa Merz era il rispetto che sentivo per il lavoro, certo, ma soprattutto per la sua riservatezza. Sapevo che non amava parlare di sé, e neanche del suo lavoro. L’avevo sperimentato, nei sopralluoghi al Castello di Rivoli, al bar sotto casa quando l’ho incontrata per un articolo su Flash Art, a casa sua a Torino, gentilissima, a farmi il caffè su un liquigas vecchio stile. Allora mi comportavo di conseguenza, e restavo riservato anch’io, in attesa, lunghi minuti di silenzio nei quali mi sembrava che mi volesse indicare di guardarmi intorno: la casa dalle pareti costellate di suoi dipinti, ma anche la città, le sale del museo, lei stessa che allestisce, da sola, magari con la restauratrice accanto, la sua opera. Piccole dimensioni, si sa, ma grande forza irradiante. Piccole neanche tanto poi, è pur vero che dalla scomparsa di Mario lei ha cambiato registro, ha ampliato le dimensioni dei suoi dipinti e ha immesso tanto colore. Le sculture però, sempre minute.  Comunque sia, ho sempre dato del lei a Marisa Merz anche perché sentivo che da quella donna minuta e gentile poteva nascere una forza incredibile, e forse lo temevo, temevo che diventasse rapporto problematico.

LA FORZA DI MARISA MERZ

Meglio inscriverla nell’opera, quella forza… Forza emotiva, profonda, che ci investe ogni volta che ci avviciniamo anche ad uno solo di essi: l’energia del tratto su carte o tele, fitto, che sembra continuo, dei disegni, l’accensione  del colore steso a piccoli tocchi sulle sculture, la trasparenza delle maglie di rame che si arrampicano alle pareti nei modi più imprevedibili, o i fili che connettono opere diverse creando insiemi che sembrano esistere da sempre tanto sono perfettamente calibrati, e invece sono stati pensati  per l’occasione espositiva in cui si vengono a trovare. La forza di Marisa Merz è questa, è energia che promana, che si coglie con un’osservazione attenta e prolungata dell’opera, che non si impone mai a prima vista (sono essenziali i dettagli) ma che resta sedimentata profondamente nella memoria.

A DOCUMENTA

Ricordo sempre, e cito sempre, la Documenta di Jan Hoet, che è stata particolarmente vasta, sono stati costruiti alcuni padiglioni aggiuntivi per ospitare tutti gli artisti invitati che invadevano anche spazi pubblici in città. Eppure resta nella memoria soprattutto la fontana di Marisa Merz: un piccolo rilievo in cera di forma quadrata, posta con estrema semplicità a terra, dal cui centro zampilla debole ma ininterrotto un getto d’acqua. Posta al centro del Fridericianum, protetta da una parete semicurvilinea la piccola opera sembrava stare al centro di tutta la Documenta, di più, sembrava che tutta la grande kermesse ruotasse intorno al quel punto nevralgico.

Giorgio Verzotti

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