Morta Marisa Merz: un ricordo dell’amica Silvia Macchetto

Un ricordo dolcissimo e privato di Silvia Macchetto: le colazioni, i racconti, le storie più intime sull’artista Marisa Merz recentemente scomparsa a Torino

La gloria di colui che tutto move
per l’universo penetra, e risplende
in una parte più o meno altrove.
nel ciel che più de la sua luce prende
fù io, e vidi cose che ridire
né sa né può chi di là su discende;
perché appressando sé al suo disire,
nostro intelletto si profonda tanto;
che dietro la memoria non può ire.
Veramente anch’io del regno santo
né la mia mente potei far tesoro,
sarà ora materia del mio canto.

Conoscevi la Divina Commedia a memoria; credo fosse uno dei tuoi libri preferiti. Ricordo di averti chiesto se il nome di tua figlia Beatrice fosse legato a questo: ma mi sorridevi senza dare una vera risposta. Come a tante altre domande. Ci conoscemmo per caso ai tempi in cui fumavi ancora a qualche inaugurazione. Non sapevo chi fossi; mi ero appena trasferita a Torino e per caso abitavano vicine. Mi hai chiesto di venire a trovarti a casa, che era anche il tuo studio, con enormi finestre sul mercato di Porta Palazzo dove vivevi con Mario e poi sola circondata da libri e opere d’arte. Nacque per caso una profonda amicizia lontana dai riflettori dell’arte. Eri minuta e parlavi poco e a bassa voce. Sorridevi sempre. Abbiamo riso tanto insieme. Ci incontravamo la mattina al bar sotto casa tua per un piccolo caffè, in autunno prendevi anche metà marron glacé; avevi un minuscolo borsellino con dentro qualche monetina per pagare. Quando mi invitavi a pranzo apparecchiavi minuziosamente sul tavolo a spirale di Mario e in un minuscolo pentolino mi cucinavi sempre stelline in brodo. Sono entrata così nel tuo mondo fatto di letteratura, di storia, di greci e romani, Ovidio e Marco Aurelio e di viaggi in paesi lontani – che tu hai visitato molto prima di me insieme a Mario – come il Giappone dove imparasti a realizzare la carta o l’Australia eri stata a Woga-Woga nel ‘79 dove Mario realizzò l’erbario – e di Beatrice, di quanto fossi orgogliosa di lei. E mai di arte.
Rifiutavi gli inchini e le formalità. Amavi il tuo prezioso isolamento. Potevi sembrare assente o distratta con chi si avvicinava a te con ammirazione. Inarrivabile. Apparentemente. Eri minuta e per dipingere su grandi fogli di carta appesi al muro del tuo studio salivi su un incerto trabattello; per arrivare in alto legavi il pennello a un bastoncino e lo intingevi d’oro, argento e azzurro per dipingere angeli, arcangeli, figure celestiali che abitavano il tuo paradiso terrestre.

Marisa, ma gli angeli piangono? Forse, ma le lacrime hanno un sapore così dolce.

Silvia Macchetto

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