“Marisa Merz? Abbiamo perso la più grande artista vivente!”. Il ricordo di Laura Cherubini

Un ricordo appassionato di Marisa Merz. L’arte, la vita, la storia, nel racconto della critica e curatrice (e amica) Laura Cherubini

Lo dico chiaro e tondo fin dall’inizio: per me Marisa Merz era la più grande artista vivente. La perdita che abbiamo subito è irreparabile. Finalmente negli ultimi anni era stata sempre più riconosciuta la sua grandezza, con la sala alla Biennale di Venezia, dove il direttore Massimiliano Gioni le aveva attribuito il Leone d’oro alla carriera nel 2013, con la mostra in uno dei più sofisticati musei di Londra, la Serpentine Gallery e poi con quella nel tempio del Metropolitan Museum di New York. Era un’artista che aveva scelto di essere appartata, in posizione defilata, ma con un costante altissimo profilo qualitativo.

Claudio Abate, Marisa Merz, 1975

Claudio Abate, Marisa Merz, 1975

L’INCONTRO CON I CONIUGI MERZ

Tutto era alto in Marisa. È difficile parlarne per timore di sciupare quell’altezza. Avevo conosciuto lei e Mario nel 1978 a casa di Luisa Laureati a Roma, Mario camminava su un tavolo, Marisa era sempre a latere, a margine. Ambedue grandissimi, apparentemente così diversi, eppure il loro sodalizio era profondissimo. Li avevo rivisti sempre a Roma per la mostra di Luciano Fabro nella terribile serata del rapimento di Moro. Mi sembra che fossero all’hotel Locarno quando venivano a Roma. Li avevo rivisti ancora a Capodanno da Maria Gloria e Giancarlo Bicocchi nella tenuta di S. Ippolito vicino Volterra. Mario era naturalmente protagonista di quelle serate. Marisa osservava, era molto attenta, costringendo in un certo senso l’interlocutore ad analoga attenzione e rigore. Aveva un grandissimo stile, non era mai banale, mai convenzionale. Secondo me si vedeva che veniva dallo studio della danza classica. Parlava poco, in uno splendido italiano, forbito, ma non affettato. Era molto precisa nell’uso del linguaggio verbale così come in quello visivo.
Molte sue opere vivevano lo spazio della sua casa, tanto che Ester Coen ha potuto scrivere che “la casa di Marisa è per certi versi il suo vero lavoro”. Queste opere delicate, umbratili, sono nate nella penombra di uno spazio domestico e intimo. “Trascendere il tempo”, “arrivare alla struttura portante della vita” questi sono i desideri verso cui si incammina il pensiero per immagini di Marisa Merz. La via per raggiungerli, nell’attimo felice dell’opera, è fatta di grande concentrazione e solitudine. A occhi chiusi gli occhi sono straordinariamente aperti ha detto una volta l’artista la cui pratica consisteva nel tessere trame, attraverso fragili installazioni di fili di rame che configurano lo spazio o attraverso l’azione di segnare, disegnare e ridisegnare che accarezza la superficie. I risultati di questo assiduo e sommesso lavorio, di questa precaria e intensa fattura, si dispongono in sequenze atemporali. Per molti anni infatti Marisa Merz lavora senza datare le opere, senza cenni biografici (di cui sono prive le rare pubblicazioni), senza classificazioni, rassicuranti, ma restrittive. Le opere vengono continuamente riallestite e rivisitate nel corso degli anni, come se fossero vive. “Creare un’opera avviene continuamente, è un pensiero fisso, non c’è differenza tra l’opera e la vita” (Costantino D’Orazio).

Mario Merz, Igloo (di Marisa), 1972. Collezione privata. Deposito Kunstmuseum, Liechtenstein

Mario Merz, Igloo (di Marisa), 1972. Collezione privata. Deposito Kunstmuseum, Liechtenstein

MARISA TRA ARTE E VITA

Il lavoro prosegue giorno e notte, non c’è distacco per Marisa Merz tra arte e vita, ma contiguità. Anche i titoli, come dice in conversazione con Hans Ulrich Obrist, “vanno e vengono”. Obrist dice di trovare significativa per lei la parola “quasi”, altrettanto significativa potrebbe essere “forse”. L’opera di Marisa Merz mina sottilmente ogni nostra certezza precostituita, appare quasi effimera rappresentazione di ogni principio d’indeterminazione. Alla fine degli anni Sessanta l’artista è stata l’unica donna coinvolta nello storico gruppo dell’Arte Povera, di cui comunque ha costituito una declinazione del tutto particolare: era subito chiaro che il suo lavoro andava ben oltre. Nel ‘68 alla mostra curata da Celant Arte povera + azioni povere ad Amalfi ha scelto lo spazio sulla riva del mare “forma senza contorni, che incessantemente assorbe altre forme” (Chiara Bertola) per posare le scarpette all’uncinetto in filo di nylon, esponendole al rischio di scomparire tra le onde (opera fotografata da Claudio Abate sulla spiaggia di Fregene). Al Castello Colonna di Genazzano (1979) ha intessuto una ragnatela di fili di rame che emetteva effimeri bagliori nel buio del sotterraneo. A Villa Medici a Roma (2000) ha appoggiato la forma vibrante di un violino in uno dei geometrici carré del giardino. Al Forte Belvedere (2003) ci ha fatto vedere Firenze e il suo orizzonte attraverso una piccola sfera trasparente sul prato. Il suo lavoro poi si è sempre più articolato tra sculture in creta morbida, dipinti e disegni evanescenti. Le testine sono forme che trovano esito nelle alterne vicende di luci e ombre, figure del silenzio animate da soffio vitale. “Nessuna è più grande del palmo della mano di Marisa” scrive Richard Flood che ne fa una chiave di lettura. Il palmo di una piccola mano. 

LA SCOMPARSA DI MARIO MERZ

Ricordo sempre la sera in cui Mario mi “precettò” per vedere la sua bellissima spirale al neon nel Foro di Cesare. Ero appena arrivata a Roma da Milano e avevo fatto 4 piani di scale con i bagagli quando squillò il telefono: “O vieni subito o non ci vediamo più” disse Mario. Mi precipitai al loro albergo sui Fori e dopo cena uscimmo a vedere dall’alto la spirale. Affacciati sulla spirale luminosa che trasfigurava le rovine Mario e Marisa dissero cose bellissime sulla città, lo spazio urbano, il barocco… Dopo la scomparsa di Mario talvolta vedevo Marisa la sera a Milano: andavamo in un bar davanti alla loro casa, dove una sera incontrammo alcuni miei studenti, incantati da Marisa. Le dissi: “Devi venire a Brera, Mario è venuto due volte!” e lei: “Vengo solo se posso fare io le domande agli studenti!”, domande che fece già quella sera stessa… Con Christine Ferry ricordavamo quel violino a Villa Medici: Marisa accompagnata da Mario Pieroni verso il giardino, Marisa che prende tra le braccia il violino, quasi lo culla e lo depone delicatamente sull’erba, il violino (che credo fosse di cera) che verso le 10,30-11 del mattino veniva spostato per ripararlo dal sole… poi tornava al suo posto… Opere viventi… Con Rosaria Mondino abbiamo ricordato la Madonna del Rosario del Guercino che Marisa amava e andava a contemplare nella chiesa di S. Domenico sotto casa sua… amava La ragazza con l’orecchino di perla di Vermeer e parlava della luce di quel dipinto… ci parlava di quale ebbrezza provasse dipingendo i quadri grandi per i quali doveva salire su una scala… Lo sguardo dall’alto… Cara Marisa, fai buon viaggio, mi piace pensarti a bordo di quel Cessna F172G con il quale, prima della mostra a L’Attico, decollasti dall’Aeroporto dell’Urbe… 

-Laura Cherubini

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