Opera e contenuto. L’editoriale di Antonio Natali

Da Ai Weiwei ad Andrea del Sarto, Antonio Natali sottolinea l’importanza della riflessione iconologica nell’approccio a qualsiasi opera d’arte. Ricordando il valore del significato.

Fra i meriti dell’esposizione di Ai Weiwei a Palazzo Strozzi non andrà annoverato soltanto l’approfondimento della conoscenza dell’artista cinese, ma anche la divulgazione di un concetto fondamentale per la critica d’arte, che invece è assai poco considerato e che l’espressione attuale mi pare aiuti a comprendere. Quando Ai Weiwei incornicia i finestroni nobili di un celebrato palazzo umanistico coi gommoni di migranti disperati, fuggiti dalla guerra, dimostra l’impossibilità di giudicare un’installazione contemporanea quando non se ne comprenda il contenuto sotteso. Lo stesso, però, vale anche per le opere del passato, che – in quanto testi poetici – son fatte di lingua e di pensiero. Gli storici dell’arte (specie in Italia) sono esegeti della lingua (figurativa, si intende); quasi mai del pensiero. Che invece per forza c’è; mi chiedo sempre come possa essere reputato accessorio, se non superfluo, da chi debba esprimersi sulle virtù di un’opera d’arte. Qual è, infatti, lo storico della letteratura (eccetto i filologi di stretta osservanza) che nell’analisi di un componimento letterario non tenga conto del suo contenuto? Dirò di più: quale lettore si appassiona a una poesia di parola se non ne intende il significato? E per un’opera d’arte figurativa non è forse la stessa cosa?

Andrea del Sarto, Madonna delle Arpie, 1517. Galleria degli Uffizi, Firenze

Andrea del Sarto, Madonna delle Arpie, 1517. Galleria degli Uffizi, Firenze

UN ESEMPIO ILLUSTRE

Faccio un esempio. La Madonna delle arpie di Andrea del Sarto a tutta prima si offre alla stregua di una lirica icona, buona anche per un santino da recita di rosario: Maria amabilmente pensosa, il Bimbo che l’abbraccia, San Giovanni bellissimo giovane, San Francesco languido e ispirato. E, invece, altro che santino. A leggere la pala alla luce di fonti e scritti noti al Sarto, ci si avvede che la tavola è un vero e proprio manifesto della spiritualità fiorentina ai limiti dell’ortodossia. Basterebbe dare finalmente importanza a quel fumo che sale su per le pareti e battezzare con un nome ammissibile quelle creature mostruose che Vasari chiama arpie (ma che arpie non sono). Se si impegnassero un poco le conoscenze bibliche, verrebbe financo naturale volgersi all’Apocalisse di Giovanni (che nella pala quasi ostenta quel suo libro, puntandoselo su una coscia). E, una volta entrati nel libro giovanneo, ci si accorgerebbe che la pala ne illustra il capitolo nono: il fumo è quello che l’Evangelista dice salire dal “pozzo dell’abisso” (bocca infernale sottomessa dal Sarto a Maria, ritta sul basamento che ne è la vèra) e le “arpie” sono le “locuste” evocate da Giovanni come bestie destinate a infliggere sofferenze agli uomini che non avessero sulla fronte “il sigillo del Dio vivente” (sigillo che San Francesco si era assunto la missione d’imprimere).
La pala è firmata e datata 1517 da Andrea. E il 1517 è l’anno in cui la Chiesa fiorentina proibisce appunto la predicazione apocalittica. Si può fare a meno di queste riflessioni iconologiche nella lettura di un dipinto così famoso? Ci si può contentare di stupire al cospetto del pathos che essa promana? I gommoni di Ai Weiwei consigliano di no.

Antonio Natali

Articolo pubblicato su Grandi Mostre #3

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Antonio Natali

Antonio Natali

Dal giugno del 2006 al novembre del 2015 è stato direttore della Galleria degli Uffizi, dove ha lavorato dal 1981 al 2016. Nello stesso 2006, in un concorso al Politecnico di Milano, ha ottenuto l’idoneità come professore ordinario di Storia…

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