Ipernatural. Reportage dal festival Drodesera

La XXXIX edizione di Drodesera, andata in scena dal 21 al 27 luglio negli spazi di Centrale Fies, ha proposto alternative chiavi di lettura dell'arte e del mondo a partire dal titolo “I P E R N A T U R A L”.

Immaginiamo per un attimo di poter guardare il reale con gli occhi di una foglia: quanto infinitamente grande appare quello che ci circonda? E se fossimo un pesce, quanto ovattato sarebbe il suono del mondo? E se divenissimo montagna, quanto miseramente piccoli apparirebbero gli esseri umani? Il ventunesimo secolo ha partorito numerose prospettive di ribaltamento del paradigma antropocentrico, eppure continuano ad avere la meglio tassonomie dicotomiche, sterili, gerarchiche. Il tentativo della XXXIX edizione di Drodesera è stato quello di insistere nel complicare le chiavi di lettura del mondo proprio a partire dal titolo, I P E R N A T U R A L, un aggettivo predisposto a spazzare via i confini tra natura, cultura, organismi viventi e cose.
C’è da dire che, al di là del titolo di quest’anno, Drodesera si è da sempre distinto per una morfologia eterogenea di pratiche e linguaggi. Un ecosistema mutevole nel cuore di una centrale idroelettrica ancora in funzione che accoglie e alimenta non solo le più liminali proposte artistiche, ma dinamiche produttive laterali, progettualità di rete internazionali accanto alla rotazione, sera dopo sera, di diverse attività enogastronomiche locali.
Non da ultimo, un ecosistema frutto di uno sguardo collettivo e una curatela plurale. Dal 19 al 21 luglio, infatti, il festival ha aperto le porte alle pratiche transdisciplinari della performance con Live Works vol. 7 a cura di Barbara Boninsegna e Simone Frangi, e dal 24 al 27 luglio il festival è proseguito con una programmazione dedicata alle performing arts a cura di Barbara Boninsegna, Filippo Andreatta e Alma Söderberg per la selezione musicale dell’Alma’s Club. Questi differenti assi discorsivi, produttivi e artistici convergono poi in una comunicazione, a cura di Virginia Sommadossi, che anno dopo anno reinventa se stessa e il proprio immaginario. Chi varca Centrale Fies, dunque, non ha bisogno di didascalie, sa già di trovarsi nel luogo in cui diversi formati del possibile collimano.

Jaha Koo, Cukoo, photo Alessandro Sala

Jaha Koo, Cukoo, photo Alessandro Sala

KOO E SCIARRONI

Accade dunque di empatizzare con tre cuoci riso elettriche nello spettacolo Cuckoo di Jaha Koo. I tre elettrodomestici danno voce, insieme all’artista, alla crisi economica che dal 2001 paralizza il Sud della Corea. I cuoci riso diventano il simbolo della capitalizzazione della tradizione, un meccanismo che espande la massa dei chicchi di riso insieme a quella dell’isolamento e delle tensioni della popolazione. Jaha Koo riesce a rielaborare i lutti personali in drammi universali attraverso un linguaggio ironico che mai scade nella semplificazione. Ridiamo con lui come arma contro un futuro che sembra già scritto, ma che si può ancora reinventare.
E ridiamo dello stesso riso amaro anche con i nove performer di Augusto di Alessandro Sciarroni. Una performance che indaga appunto la natura, a volte spaventosa, di ciò che ci porta a ridere. La risata a oltranza diventa partitura fisica e vocale, limite entro il quale distillare tutte le gradazioni emotive che dalla gioia dirottano verso la paura. Un riso che rimanda a quello che piove addosso alle sventure di un clown, ma anche a quei meme che cortocircuitano cronaca e politica, restituendoci spesso una notizia già filtrata ed edulcorata dalla tirannia della risata a tutti i costi.

VIENNE E RIZZO

Le frequenze dell’ironia sono invece del tutto rimosse dall’encomiabile lavoro di Gisèle Vienne, Crowd. La performance, dall’impatto visivo al limite dell’inverosimile, mette in scena un rave party al ralenti. Un’ora e mezza di potentissime immagini fotografiche che zoomano sui micro-movimenti, emotivi e fisici, di una comunità post-adolescenziale bianca. Il grandangolo della Vienne indugia sul malessere, lasciando fuoricampo l’euforia e bacchettando, con una lunga inquadratura in slow motion, il fascino per l’alterazione subito dalle giovani generazioni. Su un fenomeno contiguo indaga anche Deposition di Michele Rizzo, il quale piuttosto riesce a trasformare alcune sensazioni allucinatorie dell’esperienza del clubbing in un’esplorazione del proprio corpo. Una performance dai ritmi lenti che ci consente di penetrare tra i muscoli contratti dell’artista e uscirne con una nuova percezione spazio-temporale.

Marco D'Agostin, First Love, photo Roberta Segata

Marco D’Agostin, First Love, photo Roberta Segata

D’AGOSTIN E BERSANI

Lo spazio e il tempo sono due sostanze maneggiate poeticamente da Marco D’Agostin. Lo spazio è quello della memoria che manipola il fatto in funzione del sentimento, che gli dà forma. Il tempo è quello del primo amore, quello di una gara di scii di fondo vinta dalla campionessa Stefania Belmondo. In First Love Marco D’Agostin presta la sua voce alla telecronaca di quella gara, portando al parossismo il dispositivo del racconto e mostrandone la sua natura sempre mediata e soggettiva. La partitura fisica e vocale della performance, più che replicare l’andamento della gara, ne sposta infatti il senso nella dimensione intima del ricordo, nelle sensazioni dello sforzo e della gioia di un momento irripetibile riportato nel presente.
Tante dunque le declinazioni di questo mondo ipernaturale di Drodesera. “Ipernatural per me è corpo, fuoco e tempesta”, ci dice Chiara Bersani, che è al festival con Gentle Unicorn. La performance è un incontro di verifica tra sé e lo spettatore. L’artista si appropria della figura mitologica dell’unicorno, manipolata e reinventata continuamente nel corso della Storia. Nella visione di Chiara Bersani l’unicorno diventa un dispositivo di riflessione sul corpo politico. Il corpo sceglie di rispondere al proprio dovere politico nel momento in cui accoglie i significati che gli vengono attribuiti e li personalizza, trasformandoli in un manifesto consapevole di se stesso. L’artista in scena si muove con la lentezza di un tempo mitologico, reagisce a ogni piccolo rumore e inconveniente che proviene dalla sala, sfila fiera davanti agli spettatori guardandoli e ribaltando il meccanismo di assoggettamento tra il guardare e l’essere guardati. Chiara Bersani ci guarda e diventa tempesta.

Dalila D’Amico

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Dalila D'Amico

Dalila D'Amico

Dalila D'Amico è Dottore di ricerca in Musica e Spettacolo presso il Dipartimento di Storia dell'Arte e Spettacolo dell'Università di Roma La Sapienza, curatrice e videomaker freelance. Dal 2015, insieme a Giulio Barbato, cura la direzione artistica del festival video…

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