Ipernatural. Performance protagonista a Drodesera

Protagonisti e performance che hanno animato il programma “Live Works” nell’ambito del Festival Drodesera, alla Centrale Fies.

Un’oasi tra le montagne a soli 230 metri di altezza sul livello del mare, un microclima unico che permette la coabitazione di palme tropicali, fontane zampillanti in un paesaggio alpestre: geolocalizzata come Loc. Fies 1, nome del nuovo magazine pubblicato da Bruno e presentato durante il festival, Centrale Fies è uno spazio di coesistenza, dove la presenza del post nature diventa tangibile. Come in un giardino planetario, qui si colgono segnali di una natura futura, ma già reale, ibridata, connessa con il sistema di informazioni digitali, con il supercontinent, file rouge delle due visionarie precedenti edizioni.
Centrale Fies si è accesa il 19 luglio per la 39ma edizione di Drodesera con le scintille di Live Works, programma a cura di Barbara Boninsegna, Simone Frangi con la collaborazione di Daniel Blanga Gubbay, dedicato alla performance sui confini tra gli universi disciplinari che la contendono: arti visive, musica e performing arts.
Ipernatural, il tema che accompagna e amplifica le scelte curatoriali, è una parola che sembra appartenere a una lingua oscura, carbonaia, portatrice di un’informazione segreta, composta da più idiomi, il locale e misterioso iper, connesso con l’anglofono e internazionale natural, estende l’isola di Centrale FIES a un campo di speculazioni vasto, che innerva la riflessione artistica contemporanea a livello planetario.
Un caleidoscopio di visioni aumentate, di frutti puri impazziti che si nutrono del regno polifonico ed eccedente tra l’organico e l’inorganico ha pervaso nei giorni di Live Works la Centrale, attraverso riflessioni sull’autorità tecnologica e politica nei confronti dei corpi, riscrivendo rituali occulti, rimettendo in atto archivi di memorie.
I lavori, selezionati attraverso un bando internazionale, si inscrivono all’interno di una cornice aperta nei nuovi territori in cui oggi si muove la performance. La metodologia proposta appare rilevante in quanto invita gli artisti ad abitare per dieci giorni simultaneamente gli spazi di Centrale Fies, a stabilire e circoscrivere uno spazio di coesistenza, attraverso l’accompagnamento teorico del board curatoriale e di un’equipe internazionale di ospiti e tutor che ha risposto in forma di incontri e dibattiti alle opere presentate, in una sorta di Free School of Performance composta da studio visit, critical session e reading group.

Nana Biluš Abaffy e Parvin Saljoughi, photo Roberta Segata, courtesy Centrale Fies art work space

Nana Biluš Abaffy e Parvin Saljoughi, photo Roberta Segata, courtesy Centrale Fies art work space

I PROTAGONISTI

Nana Biluš Abaffy e Parvin Saljoughi, Katerina Andreou, Rehema Chachage, Ndayè Kouagou, Dina Mimi, Magdalena Mitterhofer e Astrit Ismaili, Ceylan Öztrük, Charlie Laban Trier e Cristina Kristal Rizzo, Kat Válastur sono i nomi degli autori presentati accanto a un programma extra che affianca progetti performativi a invito, dal set musicale alla coreografia alla lecture performance.
In tale ambito Invernomuto con Black Med ha condotto gli spettatori in un viaggio musicale nel Mediterraneo della durata di circa due ore. Di grande valore didattico, per le scoperte e informazioni che condivide con l’audience e di grande raffinatezza nella selezione sonora, la performance musicale attraversa le contaminazioni dei suoni provenienti dalle coste un tempo simbolo dei grandi incontri tra civiltà, oggi scenario complesso di tragedie umane e nuovi equilibri politici, esplorando la formazione ibrida di nuovi patrimoni musicali e vocalici, i suoi contesti, paesaggi e sistemi di produzione.
La performer finlandese Juli Apponen, in Life is hard and then you die. Part 3, racconta in modo clinico e sarcastico la storia delle operazioni affrontate nell’ambito del cambio di sesso da maschio a femmina in Svezia. Le complicazioni mediche estreme che fanno da contraltare alla sua determinazione sono narrate dalla stessa Juli in una lecture performance algida, astrale ed estremamente erotizzata, con toni di grande equilibrio e crudezza.
Nell’ambito più propriamente coreografico si muove il duo Marie-Caroline Hominal & François Chaignaud, che ha presentato Duchesses, un tributo all’hula hoop, simbolo di erotismo e contestazione sessuale che diventa un rituale in grado di trasformare la presenza dei performer.
Il film di Otolith Group sul compositore afroamericano di musica contemporanea Julius Eastman, The third part of the third measure, “un’esperienza del vedere nella chiave del sentire” sull’esemplare estatica estetica del radicalismo nero di Eastman, corona, insieme all’intensa performance vocalica di Sofia Jernberg, One pitch: birds for distortion and mouth synthesizers, l’orchestra del programma extra di Live Works.

Rehema Chachage, photo Roberta Segata, courtesy Centrale Fies art work space

Rehema Chachage, photo Roberta Segata, courtesy Centrale Fies art work space

TEMPO, GENERE E STORIA

Presenti molti dei grandi temi in cui l’arte contemporanea si impegna in questi anni: gender politics, postcolonialismo, blackness, che, insieme a materiali meno esplicitamente codificati, hanno costituito il core dei tre giorni di Live Works.
Tra i lavori esito della residenza, visioni più installative si sono alternate a lecture e a set di natura coreografica o performativa.
Esemplare della dilatazione del tempo che contraddistingue la performance, e il suo rapporto con il reale, è l’universo oscuro messo in atto in Scents of identity, della tanzaniana Rehema Chachage.
Il tema della rappresentazione del genere femminile in Africa e la costruzione del suo stereotipo in epoca coloniale sono dissolti nelle atmosfere plumbee di una “stanza africana”, dove una donna stende i panni tribali, brucia incensi, setaccia chiodi di garofano, in un’atmosfera lontana, tropicale, senza tempo. Emergono dalla lunga notte della storia fantasmi e immagini proiettate, che guardano e interrogano il pubblico e la performer in modi diversi, come specchi della nostra identità e delle violenze culturali.
In una ricerca tematicamente analoga, ma distante rispetto al sistema di visione, si colloca Is it true that only ants walk in a circle? di Dima Mimi, giovanissima artista palestinese che, in una embrionale lecture performance ancora da sviluppare, riflette sulla follia, sulla circolarità della storia, sulla prigionia che essa contiene. La figura del cerchio sintetizza, agli occhi dell’artista, i temi indagati in un set che, attraverso immagini, loop video e azioni, affianca monumenti dismessi, pellegrinaggi, etologia, rimettendo in circolo il tema, già affrontato nel suo percorso artistico, della morte e dei resti umani nella sfera pubblica.

Dina MimI, photo Roberta Segata, courtesy Centrale Fies art work space

Dina MimI, photo Roberta Segata, courtesy Centrale Fies art work space

CONTRADDIZIONI E ATTUALITÀ

A guardare l’attualità e le sue contraddizioni è anche il lavoro di Parvin Saljoughi e Nana Biluš Abaffy, Green Nasim, ispirato in parte alla strana storia di Nasim Aghdam, artista youtuber, immigrata iraniana e attivista che nel 2018 si tolse la vita dopo aver commesso un atto di violenza al quartier generale di YouTube negli Stati Uniti, accusando quest’ultimo di censura. Un lavoro impattante per la riflessione sui diversi dispositivi di rappresentazione mediatica, che costruisce una drammatica e insieme ironica tessitura tra dimensione fake, iper-reale e privata. Il gioco di proiezioni è composto da materiali di repertorio, found footage, riprese live in un montaggio in tempo reale, che affianca l’iper-esposizione dell’immagine al progressivo stato di perdita e smarrimento del sé.
Sottratto alla visione, anche il lavoro di Cristina Kristal Rizzo e Charlie Laban Trier, Hypernating, un concerto sotterraneo, una canzone d’amore plurale sussurrata che riverbera come flusso di coscienza in una condizione di buio quasi assoluto, dove lo spazio è mosso dalla luce, e il tempo scandito dai suoni amplificati della voce del performer Charlie Laban Trier.
Su atmosfere queer e pop, si affronta la riflessione politica dei corpi nel lavoro di Astrit Ismaili e Magdalena Mitterhofer, Pink Muscle, incentrato sulla figura di Cicciolina e sulla sua presenza nella politica italiana. Ingenua per quanto riguarda la rilettura storica, con lo sguardo dichiaratamente vicino al punto di vista di un fan club della grande icona del porno, la performance è un concerto sospeso, arrangiato in toni elegiaci e fluo, che legge la soft politics come strumento di critica. La grande abilità performativa e le skill vocaliche dei performer conducono in un seducente iperuranio erotizzato, che fluttua tra oggettivazione del corpo, lascivia, melanconia, estasi.

Kat Válastur, photo Roberta Segata, courtesy Centrale Fies art work space

Kat Válastur, photo Roberta Segata, courtesy Centrale Fies art work space

PERFORMANCE E NUOVI EQUILIBRI

Interessanti i lavori delle due coreografe greche: Katerina Andreou, con Zeppelin Bend, e Kat Valastur, con Arcana Swarm. In un insospettabile ring tra due corde come cappi sospesi, in outfit al confine tra boxe e cultura gabber, Katerina Andreou e la danzatrice Ioanna Paraskevopov Lou si fasciano le mani reciprocamente, in un’ambiguità semantica e seducente che guarda al bondage. Un tempo immobile, quello della pura azione, uno spazio di attesa, di segni enigmatici, rituali, conducono inaspettatamente a una partitura coreografica a ritmi di 180 bpm. Una sorta di regressione inietta il movimento della danza con una qualità implosa, contratta, spezzata e centripeta che si apre allo spazio in forme e moti sbilanciati, parossistici per poi sospendersi quando i corpi delle danzatrici cercano rifugio nella verticalità delle corde, come vedette impiccate di uno zoo dell’immaginario.
Kat Válastur ci porta invece in un Eden artificiale puntellato di ombre e oscurità, interpretato dagli eccellenti Enrico Ticconi e Juan Pablo Cámara. I danzatori si muovono in uno stato di gioia che collassa continuamente. Trasformando la “spinta” verso l’alto e il suo crollo in una condizione performativa, la coreografa affronta, attraverso la poetica del movimento, l’impossibilità della sua rappresentazione. I due set coreografici descritti assumono termini meno politicamente espliciti rispetto ai lavori presentati precedentemente, lavorando su una struttura compositiva rarefatta, seppur frontale, attenta ai crinali scivolosi della restituzione scenica.
È proprio nella complessità e varietà dei dispositivi messi in campo che il programma di Live Works invita a interrogarci continuamente sui sistemi di visione, sull’importanza di coniugare l’urgenza del dire a forme e linguaggi non spettacolarizzati, a cercare nello spazio ibrido, ipernatural, della performance nuovi fragili, vulnerabili, conturbanti equilibri e pratiche di resistenza.

Maria Paola Zedda

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Maria Paola Zedda

Maria Paola Zedda

Curatrice ed esperta di performance art, danza e arti visive, rivolge la sua ricerca ai linguaggi di confine tra arte contemporanea, danza, performance e cinema. Ha lavorato come assistente e organizzatrice per oltre un decennio nelle produzioni della Compagnia Enzo…

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