Nevermind. Il capolavoro dei Nirvana compie 30 anni

Il ciclo di mini saggi di Christian Caliandro sul pop sotterraneo prosegue con “Nevermind”, il disco cult dei Nirvana che ha appena compiuto trent’anni.

Al centro della teoria e della pratica del pop sotterraneo ci sono ovviamente i Nirvana e Nevermind (di cui pochi giorni fa si è celebrato il trentennale): questo oggetto, il secondo disco del gruppo e il primo pubblicato con la major Geffen, è di fatto il perno del concetto che stiamo utilizzando e analizzando in questa serie. E ne illumina anche il lato ‘oscuro’.
Intanto, consideriamo come la sottocultura – un termine che non a caso nel nostro Paese assume, dalla sua introduzione fino ai giorni nostri, una connotazione negativa e dispregiativa (di origine crociana), del tutto assente ovviamente nell’originale inglese, in cui il sotto- indica semplicemente il posizionamento, lo scorrimento sotterraneo appunto rispetto al flusso principale, maggioritario, commerciale e ufficiale ‒ nel mondo anglosassone abbia sempre  prosperato su e di una tensione fondamentale: da una parte essa si opponeva alla cultura mainstream, calata dall’alto, e rappresentava qualcosa di autogenerato, prodotto integralmente dal basso; d’altra parte, ogni sottocultura tendeva naturalmente verso il mainstream, a ciò che in altri ambiti e regimi discorsivi si definirebbe ‘il successo’.
È del resto un aggiornamento dello schema che Tom Wolfe in Come ottenere il successo in arte (The Painted Word, 1975) definiva “danza BoHo”, riferendosi alle avanguardie e alle neoavanguardie artistiche: BoHo deriva infatti dalla fusione di Bohémien e SoHo, e Wolfe voleva dire che l’artista oscilla sempre tra retoriche rivoluzionarie e aspirazioni di altro genere (SoHo era rapidamente diventato, all’epoca, il quartiere newyorkese più alla moda). Inoltre, occorre tenere presente un processo abbastanza ovvio, ma che spesso ci sfugge: nel periodo che le riguarda (cioè tra gli Anni Sessanta dei Mod e i primi Anni Novanta del grunge, passando per psichedelia, glam rock, punk, post-punk, new wave, hip-hop, techno), le uniche sottoculture che conosciamo sono quelle che hanno compiuto il salto decisivo verso il mainstream, il livello di massa; senza questo passaggio (storico, culturale, economico e biografico), la sottocultura è destinata a estinguersi anche nella percezione collettiva – perché riguarda al massimo il centinaio o il migliaio di persone che ne hanno fatto parte. Nessuno la ricorderà.

Kurt Cobain in visita al Colosseo, Roma 1989

Kurt Cobain in visita al Colosseo, Roma 1989

DA SEATTLE AL MONDO INTERO

E invece se ci pensiamo è un fenomeno abbastanza magico il fatto che, per esempio, un genere musicale nato in pochissimi locali-non locali della città più squallida, desolata e isolata degli Anni Ottanta americani (Seattle) e ascoltato dagli stessi che lo praticavano ‒ e lo inventavano praticandolo ‒ abbia oltrepassato gli angusti confini della penisola di Olympia e abbia raggiunto milioni di adolescenti e preadolescenti in tutto il pianeta (me, per esempio, tredicenne nell’estremo Sud Italia). Grazie all’impatto sulla cultura di massa, la sottocultura non solo oltrepassa i suoi confini spazio-temporali, ma estende la sua stessa percezione, in ampiezza e profondità: così, attraverso i Nirvana quasi tutti abbiamo potuto conoscere e apprezzare per esempio i Melvins, gli Screaming Trees, gli Husker Dü, gli Alice in Chains, i Pearl Jam, i Mudhoney, i Tad, le Babes in Toyland, le L7, i Love Battery (così come passando per i Cure e i Depeche Mode abbiamo potuto raggiungere Joy Division, Siouxsie and the Banshees, New Order, Dead Can Dance, Alien Sex Fiend, Wire, A Certain Ratio, Modern English, Ultravox, Human League, Christian Death, The Sound e magari Young Marble Giants).

The Village Voice, 19 aprile 1994

The Village Voice, 19 aprile 1994

IL RUOLO DI KURT COBAIN

Kurt Cobain si è ritrovato dunque intrappolato all’interno di un mastodontico dispositivo, che egli stesso ha contribuito a erigere. Inseguendo il sogno di fondere “la musica dei Beatles e quella dei Black Sabbath”, dissonanza e melodia, è piombato dritto al centro dell’incubo americano senza probabilmente avere – a ventiquattro anni ‒ ancora l’equipaggiamento giusto. Spingere negli Stati Uniti ancora largamente reaganiani sul pedale della disperazione e della frustrazione, dare una forma compiuta a questa disperazione e a questa frustrazione, essere parte integrante di un movimento e di una comunità culturale che si costruisce faticosamente e felicemente nella e sulla infelicità ma che non è privo di una dimensione fortemente utopica e comunitaria, e constatare poi a distanza di pochissimo tempo (trascorso, presumibilmente, alla velocità della luce) che proprio la forza che ti ha spinto in alto è la stessa che ha devastato tutto, inaridendo le fonti e trasformando l’intero scenario in una parodia grottesca di ciò che fu… Dall’opporsi al sistema al diventare improvvisamente questo sistema, o quantomeno la funzione fondamentale di un sistema che si sostituisce al precedente senza modificarne minimamente i presupposti, senza sapere neanche come è accaduto, nella confusione e nel dolore… Contemplare tutto questo da una distanza siderale, rinchiuso in uno “spazio mentale” ermetico, impermeabile a ogni stimolo(Michael Stipe, che gli dedicò Let Me In, dixit)…. Il dubbio atroce di aver combinato un casino irrimediabile attraverso la creazione di un’opera meravigliosa, e di non aver avuto praticamente altra scelta… Tutto questo è la forma più pura (e straziante) di pop sotterraneo.
Kurt Cobain espia colpe sue ma soprattutto di altri: il successo modifica radicalmente e irreversibilmente la percezione degli eventi e della realtà (l’espressione “dare alla testa” forse indica qualcosa di molto diverso, e di più misterioso, rispetto a ciò che intendiamo generalmente; e come diceva John Lennon, “the more real you become, the more unreal it all becomes”). L’avidità degli altri non ha nulla a che fare con la volontà, anche infantile, di dimostrare che si è capaci di tutto, con l’ambizione magari distorta – ma ne accresce il potenziale (auto)distruttivo.

I NIRVANA E NOI

Basta del resto riascoltarsi Montage of Heck, il collage musicale creato da Cobain con un registratore a 4 tracce tra 1987 e 1988 (un anno prima che la Sub Pop pubblicasse Bleach, lo straordinario disco di esordio che avrebbe dovuto intitolarsi in realtà Too Many Humans), che dà il titolo anche al nuovo documentario: c’è già tutto lì, è il punto di origine. Ed è un magnifico “fuori”, da cui uscirà tutta intera la produzione successiva dei Nirvana. Un montaggio di frammenti sonori, prelevati dalla cultura popolare e dalla realtà (scene di film, canzoni famose e conosciute, voci distorte, effetti, sigle televisive, la propria voce) da una forza creativa consapevole e istintiva, già perfettamente orientata a trasmettere nel modo più disturbante ed efficace tutto il disagio. Rimandandolo indietro – tremendamente e meravigliosamente amplificato ‒ al mondo che lo ha causato e lo causa, attraverso quel rispecchiamento che è alla base del realismo e di tutti i realismi. E che consiste anche in un fondamentale riconoscimento, grazie al quale riesco a posizionarmi nel mondo. A conoscere e a riconoscere il mio posto in quella stessa realtà che vedo riflessa.

Nirvana, Nevermind (1991), copertina dell'album

Nirvana, Nevermind (1991), copertina dell’album

IL GRUNGE DEI NIRVANA

In un’intervista dell’agosto 2013 Krist Novoselic, l’ex-bassista spilungone dei Nirvana, parlava della riedizione di In Utero in occasione del ventennale della pubblicazione. Il CD lo comprai alla Fiera del Levante di Bari in quel settembre 1993, appena uscito (e per me rimarrà sempre legato al ricordo de Il rosso e il nero, che stavo leggendo in quel periodo: le pagine di Stendhal hanno infatti per me come colonna sonora quelle canzoni, in particolare Pennyroyal Tea).
Nevermind, invece, l’avevo acquistato in cassetta l’anno prima, a tredici anni, su Postalmarket (l’antenato amatoriale e analogico di Amazon). Avevo ascoltato per la prima volta quella strana musica qualche mese prima, durante una cena con gli amici in un garage (un ambiente così lontano, eppure così stranamente consono al contesto che aveva prodotto quei suoni… la penisola di Olympia e la provincia di Taranto…) su un mangianastri scassato – e ricordo distintamente che non mi era piaciuta affatto. Quell’estate, invece, non riuscivo più a farne a meno: “Insieme [a Kurt] cercammo di parlare la stessa lingua di una generazione. Non ci rendemmo conto del peso che le nostre canzoni avevano fin quando non cominciammo a confrontarci con il pubblico; un’infinità di ragazzi veniva a raccontarci quanta e quale importanza avessero quelle canzoni nella loro giornata, nelle loro vite e persino nelle loro estati. Era come se il grunge avesse spazzato via l’idea delle vacanze a base di tormentoni” (G. Videtti, Ecco “In Utero”: il nostro omaggio a Kurt, la Repubblica, 20 agosto 2013).
Il grunge dei Nirvana ha dato un’impronta psichica e culturale a me e a gran parte di coloro che hanno la mia età: ci ha insegnato la ribellione, e come trasformare il disagio nel tema centrale di un’intera attività. Perciò io penso da parecchio tempo di essere nato una seconda volta con Nevermind.

Christian Caliandro

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Christian Caliandro

Christian Caliandro

Christian Caliandro (1979), storico dell’arte contemporanea, studioso di storia culturale ed esperto di politiche culturali, insegna storia dell’arte presso l’Accademia di Belle Arti di Firenze. È membro del comitato scientifico di Symbola Fondazione per le Qualità italiane. Ha pubblicato “La…

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