Fiere e valore. L’editoriale di Stefano Monti

Se le fiere includessero tra i propri obiettivi quello di incrementare il valore delle opere esposte, la loro reputazione ne trarrebbe un gran beneficio. Ipotesi e riflessioni nell’editoriale di Stefano Monti

Può la partecipazione a una fiera far crescere il valore di un’opera d’arte? La domanda è semplice, chiara. Ed è, in fondo, una delle sottese speranze delle gallerie che decidono di partecipare alle numerose fiere presenti nel mondo. Rispondere a questa domanda, tuttavia, richiede di approfondire un po’ di più la tematica. Attingendo per un istante dalla teoria economica di riferimento, il mercato dell’arte è stato definito da molti interpreti come un “superstar market”, vale a dire insomma che la differenza nell’attribuzione del prezzo di due artisti non è la traduzione esatta della differenza del talento, ma che ci sono altre variabili da prendere in considerazione. Quando ci si trova di fronte a una tale struttura di mercato, contano molto quelli che sono stati definiti “reputational goods”, che sono invece stati elaborati nell’ambito dell’economia dell’informazione e dei quali abbiamo, spesso senza saperlo, esperienza tutti i giorni. Semplificando, i reputational goods possono essere riassunti come quella somma aggiuntiva che noi siamo disposti a spendere pur di fare un acquisto presso un rivenditore del quale abbiamo avuto buone recensioni, ed è quanto accade ogni qualvolta decidiamo di fare un acquisto online.
Fatte queste premesse, possiamo riformulare la nostra domanda: le fiere, oggi, possono agire da piattaforma di accreditamento (reputational goods) per un artista al punto da incidere (direttamente o indirettamente) sulle sue quotazioni?

Le fiere, oggi, possono agire da piattaforma di accreditamento (reputational goods) per un artista al punto da incidere (direttamente o indirettamente) sulle sue quotazioni?

Questo meccanismo sembra funzionare ‒ sia attraverso l’osservazione dei fatti che attraverso il ricorso a indagini scientifiche ‒ con i musei: l’esposizione di un artista presso un museo può infatti far lievitare considerevolmente il valore delle sue opere (e Richter ne è solo un esempio). Anche l’accademia, con i suoi tempi, sta iniziando ad accreditare questa visione: nel paper Can government-sponsored museum exhibitions influence art market? Yu-Hsi Liu, Chi-Jung Lu e Chien-Yuan Sher affermano che, sulla base di dati empirici, l’hammer price, nei casi valutati, non è significativamente correlato né con il modello di Tobit né con il modello di regressione edonica, mentre risulta correlato significativamente con il “passaggio al museo”.
Ora c’è da capire se questo accade con le fiere. Non è facile da determinare, ma questo dovrebbe essere uno degli obiettivi principali per ciascuna organizzazione fieristica, ancora di più se di arte contemporanea. Con un dato del genere, l’organizzatore potrebbe non solo stabilire un’ulteriore variabile per il price-fixing da attribuire alle singole gallerie, ma uno dei principali indicatori “estranei” al “periodo-fiera”.
In altri termini, un’organizzazione fieristica che definisca strategicamente che uno dei suoi asset è quello di incrementare il valore delle opere di un artista potrebbe contare su una “reputation” fortissima e che non si fondi su quanto accade “in fiera” (che può essere soggetto a fattori esterni) ma che duri tutto l’anno. Un fattore di successo notevole.

Stefano Monti

Articolo pubblicato su Grandi Mostre #8

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Stefano Monti, partner Monti&Taft, è attivo in Italia e all’estero nelle attività di management, advisoring, sviluppo e posizionamento strategico, creazione di business model, consulenza economica e finanziaria, analisi di impatti economici e creazione di network di investimento. Da più di…

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