Un critico di nome Jeff Wall. Intervista con l’artista, parte seconda

Ieri abbiamo pubblicato la prima parte della lunga intervista di Jeff Wall con Daniela Salvioni. Abbiamo parlato di art-writing, di immagini perturbanti, di forma e contenuto, di realtà e costruzione dell’immagine. E ora si ricomincia, a partire dai celeberrimi lightbox, che Wall ha però smesso di produrre. E qui ci spiega perché.

Nel 2007 hai smesso di produrre i tuoi famosi lightbox. Perché? Questo cambiamento in che modo ha influenzato le immagini che crei?
Non ho smesso, semplicemente ho deciso di provare altre cose. Ho cominciato a interessarmi all’apparenza delle immagini stampate su carta, piuttosto che illuminate da dietro. La tecnologia della stampa a colori è cambiata talmente tanto nell’ultima decade da offrire opportunità che non esistevano solo dieci o dodici anni fa. Volevo espandere il repertorio di come le mie immagini possono apparire. Non penso che ciò abbia condizionato il modo in cui faccio fotografie. Una delle cose che cominciavano a rendermi impaziente rispetto ai lightbox era il fatto che la condivisione dello spazio con opere di altri artisti veniva complicata dalla loro luminosità. Questa mostra romana non è un buon esempio in tal senso, perché con Richard Long immagino che i miei lightbox avrebbero funzionato a meraviglia, forse anche meglio rispetto alle stampe su carta. Poi i lightbox sono spesso troppo prominenti. Ciò non mi dispiace necessariamente, ma sentivo che le mie immagini potevano esistere nello spazio anche in un altro modo.

Usi la tecnologia digitale per le tue immagini, facendo una sorta di montage invisibile. Mi domando se l’era digitale abbia influenzato il tuo lavoro in modo più profondo, e non solo tecnico. Il fatto che le fotografie siano oggigiorno modificabili e distribuibili infinitamente, e che vengano prodotte da tutti in modi sempre nuovi (come avviene con il cosiddetto selfie) ha condizionato il tipo di immagini che crei oggi?
Penso che la maggior parte dei fotografi oggi lavorino con la cosiddetta macchina fotografica assistita, che è un po’ diversa dalla macchina fotografica-pellicola. Io tuttora uso la pellicola, ma ormai è la norma che il negativo venga digitalizzato in modo da essere riprodotto. Per esempio, non posso più fare una stampa a colori con un enlarger, perché è così difficile reperire alcuni componenti chimici da rendere il suo utilizzo poco pratico; per di più una stampante digitale controlla il colore in un modo che un enlarger chimico non poteva. Ciò è positivo. Ormai non posso più davvero produrre una stampa senza digitalizzare il negativo, quindi il digitale non è più qualcosa di esterno alla fotografia.
Certo, uso molto il montage; a volte per costruire una singola immagine a partire da tanti pezzi, altre volte per pochi correttivi tecnici. Ho cercato di limitare la mia immersione nel digitale a questo, ed è là dove mi piace stare. Non ho ancora rinunciato alla pellicola per fare fotografia; un giorno potrei farlo, se ci fosse la ragione. Ma non mi interessa disperdere il mio lavoro in Internet, che comporta due grandi svantaggi. Anzitutto, non puoi veramente vedere il mio lavoro su Internet perché è fatto per essere visto nella dimensione in cui lo stampo, e fisicamente – quello che vedi su Internet è solo un report dell’apparenza di qualcos’altro, perciò non serve per il mio lavoro. Ciò vale per la fotografia come per la scultura e altro. Poi, so che Internet ha distrutto il valore della musica registrata, e non voglio che il valore delle mie immagini vada a zero. Un artista non ha interesse a disperdere la propria proprietà intellettuale, distruggendo così la propria capacità di vivere del proprio lavoro. Per me non è importante che le mie immagini circolino rapidamente; anzi, è meglio che stiano ferme, che la gente venga a vederle in una mostra, perché penso che si tratti di un’esperienza molto fisica, diretta e singolare.

Jeff Wall, Young man wet with rain, 2011 - Courtesy dell’artista e di Marian Goodman Gallery, New York and Paris

Jeff Wall, Young man wet with rain, 2011 – Courtesy dell’artista e di Marian Goodman Gallery, New York and Paris

Tanto è vero che hai detto: “L’impressione di una scala 1:1 tra ciò che è arte e ciò cheè reale è uno dei doni più preziosi offerti dalla pittura occidentale”. Perché questa scala è per te così importante?
Le mie immagini riprodotte nei libri non appaiono come dovrebbero; non mi sono mai piaciute sui libri. Non sono quel tipo di fotografo. Alcuni tra i fotografi più importanti hanno creato immagini esplicitamente per libri, come Walker Evans. Le sue fotografie sono perfette in American Photographs, meglio che appese al muro, perché furono inventate per questo. Ma non è il mio tipo di fotografia.

Ma cosa rappresenta per te la scala 1:1 (la cosiddetta physical life scale) e perché è così importante?
La physical life scale è peculiare, essendo solo un istante tra tutte le scale possibili. È come un cardine: di là è tutto più piccolo, di qua tutto è più grande. Tutte le scale sono interessanti, da quella del francobollo a quella dell’oggetto monumentale; non c’è una differenza di valore tra di esse. Ma la physical life scale ha una virtù: è simile all’esperienza visiva che facciamo quando non guardiamo a un’immagine. Noi non disponiamo di un apparato di ingrandimento quando guardiamo una stanza: la vediamo in physical life scale. Personalmente questa scala ha sempre avuto un grande impatto su di me. È stata inventata dalla pittura.
Ho notato molto presto che un effetto di physical life scale è in grandi opere d’arte pittoriche; per esempio Las Meninas offre tale esperienza come nient’altro, tanto da risultare più vera del vero. In questo modo magico non solo il soggetto, ma anche il vedere il soggetto ci vengono restituiti per contemplarli. Questo non accade solo nella physical life scale, ma in quel modo risulta più intenso. Per me è diventato un formato canonico, anche se a volte devio, perché non è sempre appropriato. Si tratta di un formato pieno di energia e allo stesso tempo intimo. Ed è molto realistico, perché si rapporta al modo in cui vediamo col nostro corpo. C’è una identificazione che aggiunge un altro strato di significazione.

Ti definisci principalmente artista o fotografo?
Artista. Tecnicamente sono un fotografo, perché uso la fotografia. Però non faccio giornalismo, non faccio foto su commissione, né ritratti fotografici, o lavoro commerciale. Sono un artista nel senso in cui lo è un pittore.

Jeff Wall, A Sapling supported by a Post, 2000 - Courtesy dell’artista

Jeff Wall, A Sapling supported by a Post, 2000 – Courtesy dell’artista

Uno dei più grandi impatti che ha avuto il tuo lavoro è stato di combinare fiction – o cinematografia, per dirlo con le tue parole – e documentazione o street-photography. Per te si tratta di opposizioni che connetti, o di due aspetti di una stessa visione?
Non credo che si possa parlare di fiction per la fotografia, perché è una categoria che ha a che fare con la narrativa. Non so se nella fotografia ci sia mai veramente fiction. Se pure vi è stata una messa in scena per far apparire che sia accaduto qualcosa veramente, questa è fiction? La messa in scena è avvenuta davvero! A me piace pensare che tutto quello che vedi accadere nelle mie immagini accada veramente. Per esempio, l’uomo che parla in Monologue sta effettivamente parlando, proprio come lo vedi; non sta facendo finta di parlare, come avviene con le comparse nei film, che muovono la bocca senza emettere suoni, per non disturbare la registrazione. Ma se vuoi, puoi usare quel termine, ‘fiction’, per intendere una sorta di sospensione della pratica del reportage in fotografia.

Cos’è per te la libertà artistica?
Penso che la libertà artistica sia parte della libertà politica. Oltre che un sintomo, probabilmente molto importante, di altre libertà. Non essere obbligato a reiterare un atteggiamento verso un soggetto è fondamentale, e ci sono molti posti nel mondo – può darsi la maggior parte – in cui non è facile fare questo, in cui c’è sempre qualcuno che pensa di controllare l’aspetto del mondo, e quindi coloro che creano immagini.
Artisticamente la libertà implica l’assenza di regole: se io amo Manet o Jackson Pollock, e traggo da loro qualcosa, ciò che devo imparare da loro non è dettato dall’esterno, da regole, ma sta anzitutto a me. Questo vuol dire che posso inventare la mia propria relazione con questi artisti tramite la mia pratica artistica. Nella vita non è la stessa cosa: dobbiamo obbedire alle leggi, rispettare il prossimo, eccetera. Ma in arte rispettiamo gli altri quando non li imitiamo, cercando solo di assorbire il meglio di ciò che offrono. Il resto è veramente misterioso, e dipende dall’individuo. La libertà artistica vuol dire molto: anima il modo in cui il meglio emerge dall’arte.

Daniela Salvioni

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