Guerra, politica, pensiero. Non serve una cultura della pace, serve solo più cultura

La cultura deve portare l’individuo ad un cambio di paradigma e a comprendere che il proprio punto di vista non è universale, ma comunque va difeso

Viviamo una congiuntura globale preoccupante. I conflitti locali e lontani che non hanno mai cessato di esistere si accompagnano a conflitti nuovi, che vedono da un lato, e dall’altro, importanti potenze belliche. A tale condizione si aggiunge un elemento atroce, che non si può non considerare: la guerra arricchisce. E non solo i potenti. Arricchisce per una serie di circostanze che qui è impossibile trattare, ma è un dato di fatto. A fronte della crescente ondata di violenza che dall’Ucraina allo Yemen, fino ad arrivare alla striscia di Gaza e all’Iran, sono sempre più numerosi gli appelli alla cultura della pace.

Il tema della cultura della pace

Il punto è che la cultura della pace, semplicemente non esiste. Esiste solo la cultura. E difficilmente la cultura, quella che sa gestire i conflitti in modo costruttivo, porta davvero alla guerra. Ci sono due elementi che vanno considerati: gli interessi nazionali e sovranazionali, e l’opinione comune, quella delle persone, che vengono in qualche modo anche indirizzate a formare un’opinione dai leader del pensiero, siano essi partitici o meno. Il nostro sistema democratico, e vale a dire il sistema democratico italiano, ma si tratta di una riflessione tendenzialmente estendibile in larga parte all’intero mondo occidentale, rende difficile se non impossibile contrastare gli interessi sovranazionali. Le persone, nelle nostre democrazie, contano nei fatti molto meno di quanto si tenda a credere, anche e soprattutto per l’assenza di una partecipazione concreta, che dal piccolo Comune agli Enti Centrali, agisca realmente in una condizione di controllo nei confronti di coloro che, tra politici e funzionari, sono chiamati a rappresentare la società. Un cambio di paradigma potrebbe forse portare ad una nuova forma di democrazia, ma è chiaro che questa è una ipotesi più fantascientifica che altro. Indubbiamente, l’affermazione della cultura della pace, come movimento di aggregazione di consenso, potrebbe portare alla formazione di un gruppo di pressione sicuramente significativo, all’interno del quale far convogliare una serie di interessi differenti da quelli che oggi agevolano o quantomeno non contrastano la formazione di conflitti. Anche questo elemento, tuttavia, troverebbe non poche difficoltà concrete.

Stefano Boeri Architetti, Ramagrama Stupa, Biodiversity Ring Garden and Peace Meadow. Credits Stefano Boeri Architetti
Stefano Boeri Architetti, Ramagrama Stupa, Biodiversity Ring Garden and Peace Meadow. Credits Stefano Boeri Architetti

Cultura, pace e politica

In questa accezione, però, la cultura della pace non riguarderebbe più la cultura, ma riguarderebbe principalmente una dimensione politica.  Non per questo meno nobile, ma non sarebbe in ogni caso una dimensione culturale. La cultura della pace estesa invece alla generalità dei cittadini, è un’ambizione che nasconde non poche insidie.
La cultura è confronto. Lo è necessariamente. È il risultato del processo attraverso il quale un individuo si rapporta con il mondo fisico (quello sensibile), e con l’insieme di nozioni, conoscenze, informazioni e produzioni umane, che sono state realizzate da un lato per descrivere o spiegare il mondo, dall’altro per rappresentare parti di esso sensibili o meno, essere umani inclusi. Ciò significa che il germe primigenio di ogni forma culturale implica un rapporto di confronto tra l’individuo e il proprio mondo di riferimento. Talvolta questo processo non è conflittuale, altre volte lo è.  
Nella nostra società occidentale, è comune ad esempio attribuire un ruolo conflittuale alla fase dell’adolescenza, vale a dire quella fase di passaggio in cui l’individuo inizia a confrontarsi con una serie di valori “altri” rispetto a quelli che fino a pochi anni prima erano centrali nella propria persona. Il momento in cui si identificano modelli differenti. Gestire questo passaggio genera conflittualità. Conflittualità da parte dell’individuo, ma anche da parte del suo nucleo familiare, perché deve accettare di non essere più un modello assoluto, ma soltanto relativo.
Eppure, per quanto conflittuale, questo passaggio è centrale nella vita dell’essere umano.
Piuttosto che sviluppare una cultura della pace, va dunque sviluppata e animata una cultura in senso stretto, e vale a dire la capacità di confrontarsi con ciò che ci piace e con ciò che non ci assomiglia, o che percepiamo ostile. Comprendere che il conflitto può essere costruttivo se non porta alla guerra.

Conflitti e dialogo grazie alla cultura

Non dobbiamo imparare a fare la pace. Dobbiamo imparare ad avere torto. A confrontarci con altri modelli. La presunzione che le persone possano vivere sempre in pace è pericolosa, perché impone un modello che non è umano e non è evolutivo. 
La cultura dovrebbe insegnare proprio il contrario. Dovrebbe portare l’individuo a comprendere che se da un lato bisogna tener conto che il proprio personale punto di vista non necessariamente rappresenta una verità universale, dall’altro rappresenta il proprio punto di vista, e in quanto tale va difeso, e va difeso attraverso l’approfondimento, attraverso la consapevolezza e attraverso il confronto con gli altri.  È molto più difficile di uno slogan. Ma forse ne abbiamo realmente bisogno.

Stefano Monti

Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati

Stefano Monti

Stefano Monti

Stefano Monti, partner Monti&Taft, è attivo in Italia e all’estero nelle attività di management, advisoring, sviluppo e posizionamento strategico, creazione di business model, consulenza economica e finanziaria, analisi di impatti economici e creazione di network di investimento. Da più di…

Scopri di più