La Biennale Danza di Venezia. Reportage (II)

In una città ormai mordi-e-fuggi come Venezia, sorprende l’intelligente programma, rivolto al futuro, di William Forsythe e Benoît Lachambre per Biennale College Danzatori, mentre il passaggio di Alessandro Sciarroni stempera le tinte nere e cupe di tanti lavori coreografici di questa Biennale Danza 2017. Ecco la seconda parte del nostro reportage.

Venezia è città sempre più piena, affollata, scorretta, vociante e in fondo rétro, perché bottegaia. Ma anche questa è la forza di una litania, con tutte le verità del luogo comune. Difficile allora, in tanto mordi-e-fuggi, riconoscere gli zombie stralunati che provano a resistere agli inquinamenti culturali dai cloni attoniti e silenziosi che, invece, vi partecipano ignari. Al Lido, intanto, si sperimentano corsie preferenziali per i residenti negli accessi ai battelli. Si crede, così, di ripristinare una graduatoria, una precedenza che sembra migliore e più giusta solo perché è passata per sempre (Brexit docet). Venezia è, dunque, città di rimpianti: nulla si ama con maggiore intensità se non ciò che si sa di avere perduto. In tanta secessione della nostalgia, una migliore disposizione in vista del futuro si è trovata, invece, nel programma di Biennale College Danzatori. Nella Sala d’Armi A dell’Arsenale, un percorso di formazione laboratoriale lungo dodici settimane si è concluso con un estratto di Sider (2011) di William Forsythe e l’inedito That Choreographs Us di Benoît Lachambre. Un intenso programma, pensato e davvero invidiabile: da una parte, per il repertorio contemporaneo, acquisito qui come credibile materiale in prospettiva di una professionalità; dall’altra, per la possibilità concreta di entrare, comprendere e condividere il processo creativo di due autentici pensatori della scena coreografica e performativa internazionale di oggi.

William Forsythe, Sider, photo Andrea Avezzù (3)

William Forsythe, Sider, photo Andrea Avezzù

WILLIAM FORSYTHE

Sider è un capolavoro e il team per la sua ripresa d’eccezione: non solo coloro che, negli anni, lo hanno danzato, ma anche chi fin dall’inizio ha direttamente collaborato alla creazione. Nato da una sequenza di parole collegate fra loro per libera associazione, poi disposte su di un foglio come in una mappa e unite da un tratto che contempli anche variazioni, la sequenza è poi portata sulla scena a partire da una camminata, e nel variare del tempo e dello spazio anche con improvvisazioni (secondo la tecnologia di Forsythe, a guida di David Kern). Da una solo map ossia un assolo come materiale per ciascuno danzatore, si è passati a improvvisare con una board: una per tutti, poi due, poi il castle, ossia un castello di 15 board, poi ognuno con la propria board, ma con il task di non toccarla mai con le mani, poi con due a testa, e finalmente è nato il kicking (la sequenza poi iniziale, da brivido, con cui tutti si presentano al pubblico nel moto organizzato di queste tavole). Kern ha lavorato anche sul dispositivo acustico: nell’orecchio i danzatori ascoltano, a comando di chi dirige il pezzo, estratti dell’Hamlet shakespeariano in lingua originale. I danzatori possono reagire in vari modi: con il movimento, con azioni di gruppo, oppure emettendo un suono ma senza riprodurre le parole (mumbling). L’unico pezzo che non viene riprodotto dai danzatori è il celebre monologo To be or not to be, che viene invece picchiettato sui bordi delle tavole in modo libero. Josh Johnson ha lavorato sull’utilizzo dello spazio e su tutti i movimenti che i danzatori fanno con le tavole; Frances Chiaverini ha lavorato sul corpo (battimenti e ritmi vari) e il duetto fra Hamlet e Ophelia con due guardie, una solo con board; poi Katja Cheraneva ha lavorato di pulizia, nel movimento e nelle relazioni; infine Roberta Mosca ha lavorato sulle possibilità del montaggio che la relazione tra i danzatori poteva mettere all’opera. Perché chi dirige, dal mixer, i testi e la musica e il microfono, interviene nel processo compositivo in stretto dialogo con quanto avviene in scena. I testi e i brani musicali non sono mandati in sequenza lineare, ma spetta alla figura autoriale (maestro concertatore) che è al mixer decidere quando inserirsi nel processo in corso. Il maestro concertatore ha un microfono con il quale può decidere di intervenire dando indicazioni precise che soltanto i danzatori sentono, come per i testi, mentre la musica è sempre condivisa con il pubblico. Tutto è lasciato all’iniziativa degli interpreti, alla loro capacità di proporre materiali e di sostenere anche più situazioni in simultanea, in un equilibrio presente ma sempre negoziabile. E si assiste a una estrema libertà, anche, di andare in contrappunto. Sempre con l’obiettivo di lasciar mettere in luce le fragilità di ognuno. Il complesso dispositivo coreografico, l’attenzione totale richiesta ai danzatori resteranno per sempre nella coscienza e nella memoria dei felici partecipanti.

BENOÎT LACHAMBRE

That Choreographs Us ha invece una dimensione più estemporanea, ed è il risultato di un incontro in presenza, quello tra Lachambre e i giovani danzatori. Non vi è alcunché di strutturato oltre l’indicazione di non fare per fare, ma di fare secondo necessità. Da qui alcune sedie in quinta, per chi si perde e ha bisogno di un tempo più neutro prima di rientrare nello spazio agito (con due box ricolmi di rulli e mattoncini, mille tappetini impilati, un microfono e un tavolo, poi numerose palle di legno e da tennis, tutti a cornice e in attesa dell’uso). Il coreografo, in scena, è come un direttore d’orchestra che non dirige, ma che libera le energie intervenendo proprio là dove ce n’è bisogno. E rispetto al pezzo di Forsythe, qui si sperimenta una equivalente, ma non uguale, libertà. L’ordine logico di ciò che accade è sì spontaneo ma comunque sempre legato, connesso, mai a sé. I danzatori agiscono secondo relazioni non prestabilite, con una grande attenzione al gruppo e ai livelli di energia: un vero esercizio dell’ascolto, e dell’azione coerente a esso collegabile. Infatti, è la compattezza e maturità dell’ensemble che resta, a sorpresa, negli occhi dei presenti.

Benoit Lachambre, That Choreographs Us , photo Andrea Avezzù (5)

Benoit Lachambre, That Choreographs Us , photo Andrea Avezzù

ALESSANDRO SCIARRONI

Se, in generale, in questa Biennale Danza 2017 sono prevalse le tinte nere e cupe di drammi coreografici anche un po’ passé, ha invece rischiarato la programmazione, con la sua luminosa semplicità, il passaggio di Alessandro Sciarroni. Folk-s (2012) e Aurora (2015) sono lavori molto visti, programmati e internazionalmente già riconosciuti. Mentre Chroma è lavoro ultimo, qui in prima italiana. Sciarroni lavora per evidenza, nel tempo lungo dell’affetto: in quest’ultimo è lui stesso in scena, e sembra divertirsi molto. Si tratta di un assolo che, nella presa dello spazio e nell’esercizio prolungato del turning, sembra riportarlo a uno stato di grazia infantile. Al tempo in cui la vita è ancora inesplosa e la gioia non ha contropartita. Basta un braccio che sale nel vortice estatico per raggiungere una qualche meta, per poi subito disattenderla perché solo l’apertura è il più vero compimento. Anche le luci e la musica hanno una dimensione esclusivamente affettiva, mai didascaliche. Non spiegano niente, semmai piegano lo spazio della rotazione verso l’impressione dell’immobilità. Difficile non farsi contagiare. E non mettersi in gioco. Il piano di lavoro e quello della ricezione non sono quelli abituali, non è richiesto alcun giudizio perché qui siamo fuori dal debito che un’opera d’arte tradizionalmente porta con sé. E in questo sta la più grande forza del lavoro di Sciarroni. Costringe lo spettatore più disponibile a uno spostamento: dalla logica utilitaristica del vedere al sistema sensibile delle intensità.

Alessandro Sciarroni, Folk's, © Andrea Macchia

Alessandro Sciarroni, Folk’s, © Andrea Macchia

UN CATALOGO AD HOC

Da registrare, infine, una meraviglia: da quest’anno Biennale torna a stampare in proprio i cataloghi che istruiscono sulla sua programmazione. Anche quello del settore Danza torna a sembrare un libro, con pari dignità estetica e per di più ben fatto e legato, pronto per essere consegnato ai lettori di oggi come agli studiosi di domani. Un oggetto capace di resistere alle contingenze che documenta. Resta ora, semmai, da preferirgli contenuti di analisi e riflessione, l’“immersione critica nella cosa”, come voleva Adorno, a materiali di mera comunicazione, magari già accessibili online con un click. L’analisi e la riflessione sono forme proprie e non semplici mezzi. Sono il motore del nuovo. E non c’è condivisione al di fuori della verifica che un approfondimento, un esame o un’indagine consentono. È anche una salutare pratica del sapere rendere conto. La responsabilità nei confronti della complessità ben oltre ogni ideologia della chiarezza e della comprensione, nel cui tempio spesso viene sacrificato ogni contraddittorio, ogni diversità. Come nell’installazione interattiva di Lee Mingwei, The Mending Project (2009-2017), all’Arsenale per Biennale Arte di quest’anno: sono i fili delle relazioni e delle corrispondenze i soli capaci di riparare i guasti delle idee e di rammendare le fragilità dei nostri limiti.

Stefano Tomassini

www.labiennale.org/it/danza

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Stefano Tomassini

Stefano Tomassini

Stefano Tomassini insegna Coreografia (studi, pratiche, estetiche), Drammaturgia (forme e pratiche) e Teorie della performance all’Università IUAV di Venezia. Si è occupato di Enzo Cosimi, degli scritti coreosofici di Aurel M. Milloss, di Ted Shawn e di librettistica per la…

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