Dialoghi di Estetica. Parola ad Andrea Ferrari

Le memorie di una sconosciuta farmacista milanese, Giulia C. restituite attraverso una meticolosa investigazione fotografica, opera dell’artista milanese Andrea Ferrari. “The pictures included in this envelope” è un libro che narra senza parole la possibile vita di una donna sconosciuta attraverso le immagini degli oggetti di casa sua. La presenza delle cose e il loro differimento attraverso il mezzo fotografico; un inventario di frammenti e una narrazione in continua evoluzione; la pratica fotografica e la sua potenziale familiarità con l’atteggiamento del collezionista. Il dialogo è un estratto della conversazione che Davide Dal Sasso ha avuto con l’artista in occasione della presentazione della sua opera, organizzata da Pepe fotografia e Van Der Gallery a Torino.

Sfogliando il tuo libro, passando da un’immagine all’altra, l’attenzione viene attratta dagli oggetti, la loro posizione e la loro presenza nel vuoto delle pagine. C’è un ordine, una chiave di lettura, per accedere a questa narrazione senza parole?
Insieme agli autori (Quentin Bajac e Laura Gasparini) dei testi che accompagnano il libro, pubblicato con Kehrer Verlag, penso che la lettura più appropriata sia quella legata alla possibilità di tradurre il presunto spazio fisico della casa di Giulia C., l’enigmatica figura alla base di questo lavoro, in uno spazio mentale. In parallelo, penso anche alla conseguenza di poter trasformare l’inventario degli oggetti in una collezione di segni. Si tratta di una possibilità che credo sia intimamente legata al tema dell’invisibilità. L’idea stessa dell’archivio del reale (che è stata la pratica inconsapevole di Giulia C.) cela l’enigma del vedere; prevede tracce da decodificare, punti d’osservazione, strumenti d’ascolto, soglie percettive. La tendenza alla disposizione in scatole, tipica dell’archivio, cela la potenzialità labirintica del linguaggio. Nel conservarli, gli oggetti assumono una sorta di mimetismo: manifestano le sembianze dell’enigma. Il significato nascosto prende il sopravvento sull’oggetto reale. La collezione dei segni si sostituisce alle cose. Come in una sorta di stato primordiale del linguaggio, la scrittura è disegno, accumulo grafico, intreccio. L’inventario è visibile in superficie, ma attraverso la sua estensione nasconde la sua struttura geroglifica; l’intera collezione del quotidiano, attraverso una sorta di acquisizione di invisibilità, diviene territorio per una archeologia della forma.

Impacchettati, trascritti, accumulati. Il senso di questi oggetti si fa tutt’uno tanto con la storia di Giulia C., quanto con quella del suo archivio. Chi era? Qual è stata la sua storia?
Di Giulia C. posso dire davvero pochissimo. Stiamo parlando di una persona che io non ho conosciuto. Il mio è stato un incontro casuale con i suoi memorabilia o meglio: con una collezione di segni sparsi in uno spazio temporale breve. Forse Giulia C. è una persona che ci ha offerto un affascinante inventario di oggetti. Forse era una donna molto sola che ha attraversato il Novecento, due guerre, e che non è mai riuscita a buttare via nulla. Giulia C. potrebbe essere stata una grande collezionista o un’artista inconsapevole. È in particolare il suo archivio fotografico che lascia supporre queste ultime opzioni. In più occasioni, guardando le sue foto, ma devo dire anche taluni di quegli oggetti trascritti e impacchettati, si palesa una pratica visiva molto alta.  Ma non possiamo dire se questa sia consapevole o meno.

Andrea Ferrari, The pictures included in this envelope, 2013

Andrea Ferrari, The pictures included in this envelope, 2013

Tutte quelle trascrizioni e quei frammenti di testo che appaiono su più oggetti, offrono comunque diversi indizi su di lei.
Alcuni oggetti, tra i quali taluni fogli di carta e in particolare alcune buste, possono anche essere pensati come degli indizi più evidenti della sua persona. C’è per esempio un foglio che, fronte e retro, è completamente ricoperto da un’accumulazione di iscrizioni in cui riconosciamo: calcoli matematici, formule chimiche, autoritratti. Il tutto in un intreccio grafico-geroglifico. Si tratta di un foglio che lascia senza parole. Ancora più forte è invece l’impatto delle buste usate da Giulia C. Sono circa trenta, fittamente scritte su entrambi i lati: sono il suo diario della domenica. Da questi segni, qualcosa di lei si può cogliere… ma, sono ugualmente segni anche quelli che appaiono su quei fogli con cui vengono impacchettati anche alcuni misteriosi oggetti. Uno di questi è avvolto in una pagina di giornale sulla quale spicca un titolo: ‘arte e civiltà’. Certo non si può che essere affascinati da un pacchettino che porta su di sé una scritta del genere. Ma non penso si tratti di rivelazioni. Sono piuttosto dell’idea che tutti questi indizi facciano parte di un inventario di oggetti che può essere trasformato in una collezione di segni. Dico questo perché credo che gli oggetti possano assumere un altro significato che va aldilà della loro definizione. Non basta dire che quella è una busta o che quest’altro è un ritaglio di giornale. Forse il significato degli oggetti non è solo quello che è strettamente connesso alla loro natura materiale.

Gli oggetti che mostri nel tuo libro non ci sono per davvero, abbiamo solo la loro immagine fotografica. Sono opere solo perché sono diventati immagini? E se non è così, se quegli oggetti originali fossero già opera, non potremmo pensare che sia direttamente Giulia C. a essere un’artista?
Provo a rispondere a entrambe le domande, cercando prima di tutto di uscire dall’angolo nel quale mi hai cacciato. Una facile via di uscita potrebbe essere questa: potremmo pensare che questo lavoro è semplicemente un lavoro di documentazione. Così facendo però, non possiamo dimenticare che documentare mediante la pratica fotografica vuol dire comunque selezionare dei frammenti di realtà, scegliendo cosa mostrare e cosa no. Potremmo però pensare altrimenti, riconoscendo che accanto alla fotografia documentaria abbiamo anche un atteggiamento appropriazionista. Non saprei dire se sia io o Giulia C. a essere appropriazionista. Di quegli oggetti, forse lei se ne è appropriata prima e io dopo. Resta che insieme ai primi due atteggiamenti, quello ducumentario e quello appropriazionista, se ne aggiunge anche un terzo, quello compositivo. Possiamo pensare che gli oggetti fossero nel modo in cui io li ho ritratti, o che fossero disposti esattamente in quei modi? Possiamo pensarlo. Tuttavia la pratica fotografica, almeno per come io la intendo, non si esaurisce nel ritrovamento, nella scelta o nella composizione. Piuttosto, essa rivela tutti questi atteggiamenti.

Andrea Ferrari, The pictures included in this envelope, 2013

Andrea Ferrari, The pictures included in this envelope, 2013

Cosa vuol dire fare fotografia?
The pictures included in this envelope è stata anche l’occasione per una definizione: fotografare significa trovare, vedere, indicare, comprendere, definire, comporre, ordinare; è un atto di conoscenza, che necessità, a seconda dei soggetti, gradi di purezza rispetto alla sua stessa tecnica. Se indicare è l’atto fondativo dello sguardo fotografico, comprendere e definire sono le categorie logiche della visione, ordinare è una necessità interna del discorso, mentre comporre è, in senso astratto, costruire la densità percettiva della visione stessa.

Qual è secondo te la funzione dell’immagine rispetto agli oggetti che questa può ritrarre?
Mi permetto di tornare ancora a Susan Sontag, a un passaggio nei suoi scritti in cui dice che “le fotografie sono forse i più misteriosi tra gli oggetti che formano, dandogli spessore, quell’ambiente che noi definiamo moderno”. L’immagine fotografica è un tutt’uno con l’oggetto. Tuttavia, e questo è secondo me imprescindibile, vi è anche un altro aspetto da considerare: la fotografia è un atto di scelta e di profonda astrazione. Facendo fotografia si sceglie sempre una porzione di mondo, escludendone un’altra. Si mostra un indizio, tralasciandone un altro. Si estrae qualcosa e lo si offre a successivi processi di astrazione. La fotografia, potremmo dire, è estrazione e astrazione proprio quando dalla cosa passiamo all’immagine. Presentare le immagini e non gli oggetti, ritengo sia una necessità profonda del linguaggio non un vezzo stilistico. Si tratta di una necessità propria del linguaggio fotografico che, proprio attraverso le immagini, da un lato apre all’astrazione e dall’altro alla possibilità di cogliere l’essenza delle cose.

Andrea Ferrari, The pictures included in this envelope, 2013

Andrea Ferrari, The pictures included in this envelope, 2013

In che modo le tue immagini mirano a restituire un possibile senso delle cose?
Faccio fotografia pensando di avvicinarmi all’installazione e alla scultura. Non sono interessato alla ricerca del soggetto, sono attratto dalla sua essenza. Per questo, spesso il mio lavoro consiste nel togliere qualcosa. Cerco di sottrarre degli elementi in modo da costruire lo spazio visivo che voglio ottenere. Questa procedura caratterizza un mio lavoro intitolato Untitled Paper che è una ‘terra di mezzo’, l’entroterra mentale sul quale è nato il libro The pictures included in this envelope. Questo lavoro (Untitled Paper) tematizza un album di famiglia di venticinque pagine fotografate sul verso, evitando così di mostrare le loro immagini. Mi interessa offrire una visione ermetica esponendo oggetti che nascondano qualcosa. Le venticinque immagini danno poi vita a un’installazione, ma anche a un’opera che spesso mi immagino potrebbe essere riposta in una valigia destinata a un collezionista e accompagnata da una lettera sulla percezione… ma tutto questo è per ora solo un progetto nella mia immaginazione.

Pensi al lavoro fotografico più come a una procedura basata sull’addizione o sulla sottrazione?
Lo penso in entrambi i modi. Untitled Paper è un po’ il lato astratto di The pictures included in this envelope, che è invece un lavoro figurativo. La riduzione e l’addizione sono presenti in modi diversi nei due lavori. Intravedo continuamente questa duplicità della ricerca fotografica. Proprio per questo la penso sia come una continua aggiunta di qualcosa sia come un lavoro a togliere.

Esponendo le fotografie al rovescio, dando risalto alla materialità e riducendo la loro forza visiva, stai ancora facendo fotografia?
Questa è una bella domanda. Me la sono fatta anche io tante volte. E proprio da questa domanda sono giunto a stabilire una connessione tra la pratica fotografica e quella del collezionare. Vedo una simmetria tra la scelta degli oggetti che potranno essere in un’immagine e quelli che cerca e seleziona un collezionista. In fondo, anche nel rapportarmi agli oggetti che ho trovato nella casa di Giulia C. ho fatto diverse scelte. Ne ho selezionati alcuni e scartati altri secondo le mie esigenze. In questo, penso di nuovo a uno stretto rapporto con l’atteggiamento del collezionista. Si celebrano gli oggetti non solo se si usano direttamente ma anche se si scelgono sia facendo fotografia sia collezionandoli. Penso si tratti di un’attenzione particolare rivolta tanto all’oggetto quanto allo stesso sguardo su di esso. E questo mi sembra che riveli quei tre momenti propri del fare fotografia: la documentazione, l’appropriazione e la composizione.

Davide Dal Sasso

http://labont.it/

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Davide Dal Sasso

Davide Dal Sasso

Davide Dal Sasso è ricercatore (RTD-A) in estetica presso la Scuola IMT Alti Studi Lucca. Le sue ricerche sono incentrate su quattro soggetti principali: il rapporto tra filosofia estetica e arti contemporanee, l’essenza delle pratiche artistiche, la natura del catalogo…

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