Nove anni alla Biennale. Tutto Paolo Baratta

Si comincia dalla carriera universitaria, fra ingegneria ed economia, Milano e Cambridge. E si arriva alla Biennale. Dalla presidenza in epoca Veltroni fino alle ultimissime novità lagunari. Con quella breve parentesi Malgara e il ritorno a furor di popolo.

Come comincia la storia di Paolo Baratta?
Nasco come ingegnere al Politecnico di Milano, mentre per studiare economia sono stato a Cambridge. In quegli anni significava voler capire come funziona il mondo per poterlo, se non cambiare, almeno aiutare: erano i ruggenti Anni Sessanta. Dopo Cambridge nel 1968, al mio ritorno in Italia, ebbi la fortuna di incontrare Pasquale Saraceno, che mi propose di seguirlo a Roma, e cominciai a dare forma alle mie aspirazioni. Ho lavorato con Saraceno alla SVIMEZ (Associazione per lo Sviluppo Industriale del Mezzogiorno), mantenendo rapporti con l’IRI e le Partecipazioni Statali. Tema centrale era lo sviluppo economico italiano e del Mezzogiorno. Soprattutto ho conosciuto e studiato la “crescita”, che da tempo è diventata l’araba fenice dell’economia italiana, ma ho conosciuto anche la sua prima fase critica. Ho fatto poi il banchiere. Sono stato consigliere dell’ICIPU (Istituto di credito per le imprese di pubblica utilità), vicepresidente e poi presidente di Crediop (Consorzio di credito per le opere pubbliche – Icipu) allora in crisi. Quindi ho lavorato al risanamento e al rilancio di questo grande istituto che dette un decisivo contributo allo sviluppo del Paese nel duplice senso di una strutturata organizzazione del risparmio nazionale e del suo consolidamento nella realizzazione di infrastrutture e servizi.

I Sessanta, anni di sviluppo…
C’era una forte volontà di governo del futuro, per fare dell’Italia una moderna realtà industriale. Ho avuto la fortuna di frequentare un nucleo di persone su cui si fondavano i pilastri del sistema degli strumenti pubblici, tutti sotto forma d’impresa. Pensiero dominante era la necessità per il Paese di una classe di amministratori pubblici, una generazione di “facitori”.

Corderie 2 Nove anni alla Biennale. Tutto Paolo Baratta

Corderie – courtesy la Biennale di Venezia – photo Giorgio Zucchiatti

Un economista con una solida formazione culturale?
L’economia è pur sempre una branca del sistema filosofico! Il mio testo cult è The Theory of moral sentiments di Adam Smith. Se manca la capacità di visione sistemica delle cose, la tecnica non può bastare. Cultura è porsi continuamente domande su temi correlati di sempre più ampio respiro: almeno la cultura di una classe dirigente degna di rispetto.

Il valore aggiunto di un manager alla cultura?
Non essere solo un manager!

Cosa significa essere di nuovo al comando della Biennale dopo la parentesi Malgara?
Il sindaco di Venezia ha giocato un ruolo importante nel sostenermi e la città è stata sempre più coinvolta in una Biennale che ormai sente sua. Lo stesso ha fatto il presidente della Regione. Non ho mai fatto politica, non ho mai cercato il consenso “diffuso”. Scoprire di averne è stato importante.

Facciamo un passo indietro: com’è diventato presidente della Biennale?
Agli inizi del ’98 ho incontrato Walter Veltroni, allora vicepresidente del Consiglio e ministro dei Beni Culturali. Mi ha raccontato della riforma appena approvata per la Biennale, di cui non sapevo nulla. Poche ore dopo mi propose la presidenza, chiedendomi una decisione praticamente immediata. La sfida era accattivante e l’ho accettata. Subito dopo mi sono accorto che la Biennale era veramente malridotta: quell’anno c’erano appena pochi soldi per la Mostra del Cinema e nient’altro.

Qual è il miracolo che ha consentito di avere i conti in attivo?
Sono tornato da Veltroni e gli ho detto: “Scusa Ministro, mi devi dare almeno il necessario per esistere”. Ha acconsentito. Ci sono stati due cambiamenti importanti nella riforma della Biennale: è stato introdotto il bilancio civilistico e rapporti privati nel lavoro. Utilizzare il bilancio civilistico vuol dire avere una contabilità non condizionata dalle regole della pubblica amministrazione: sei più libero di osare, ma è più forte la sentenza, se sbagli.

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Ca’ Giustinian – courtesy la Biennale di Venezia – photo Giorgio Zucchiatti

Fondamentale è stato l’ampliamento degli spazi…
Ho cominciato immediatamente a lavorare in questo senso, e in tre mesi ottenni la concessione dell’Arsenale! Negli anni successivi sono partiti i lavori di restauro fino alle Tese, per la Mostra d’Arte diretta da Harald Szeemann. In seguito abbiamo aggiunto altri spazi fino all’Isola delle Vergini.

Come ha messo in moto la macchina Biennale?
Non essere un “esperto” risultò una fortuna, perché non ero condizionato. Mi sono chiesto chi potesse avviare una mostra con carattere internazionale, e decisi di rivolgermi a Szeemann. Andava scardinato il vecchio meccanismo. Fino ad allora il modello della mostra era basato sui Padiglioni nazionali. La Biennale nominava il curatore del Padiglione Italia, al quale si chiedeva eventualmente di fare qualcosa di internazionale. Bisogna arrivare alla mostra di Bonito Oliva per vedere un panorama aperto alle nuove generazioni.

Cosa non funzionava?
La formula era da tempo oggetto di critiche: ma come, in un’epoca di globalizzazione gli Stati vengono a portare opere d’arte come se fossero i loro prodotti nazionali alimentari!? Decisi che la Biennale non doveva più avere un curatore del Padiglione Italia, ma uno per una propria Mostra Internazionale. Ero convinto che il vecchio sistema dei Padiglioni potesse essere rinvigorito solo avendo accanto la nuova mostra, la cui prima edizione fu nel ’99. Altro cambiamento importante: fino ad allora i curatori erano sempre stati italiani, mentre da quel momento arrivano da tutto il mondo.
Oggi la mostra è un sistema duale, è la somma di una mostra come Documenta e della vecchia Biennale. La voce del nostro curatore deve necessariamente essere dominante, in quanto responsabile di scelte. E la qualità non sta nelle scelte avventate o burocratiche, ma va scovata con scelte coraggiose e selettive. Un comitato non potrebbe mai svolgere questo compito: farebbe compromessi prima ancora di partire.

E il Padiglione Italia?
È tornato potenziato, ma sullo stesso piano degli altri padiglioni, mentre la parte del leone – e a Venezia si può ben dire – rimane alla Mostra Internazionale.

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Padiglione Centrale – courtesy la Biennale di Venezia – photo Giorgio Zucchiatti

Come lavorano i direttori delle varie sezioni?
Hanno totale libertà nelle scelte culturali e limitazioni molto precise per quanto riguarda il budget. Questo schema ha fatto chiarezza. Abbiamo i costi delle personali costanti da cinque anni, grazie a una macchina amministrativa che funziona. Alle tradizionali lagnanze sono succedute le dichiarazioni dei curatori, che giudicano la struttura e i metodi di lavoro della Biennale tra i più efficienti e qualificati del mondo.

Come funziona il CDA della Biennale? Modello Rai?
Per carità! È fondato sul principio della responsabilità e della funzionalità. I membri sono Orsoni, Zaia, Zaccariotto ed Emmanuele. Per la scelta dei direttori preparo un’istruttoria che mi consente di portare la proposta in CDA. Quando si arriva al voto, la scelta non è limitata al nome, occorre averne verificato la disponibilità e delineare con quella indicazione il rispetto di un indirizzo culturale. La nomina del presidente delle giurie è compito del direttore artistico, il quale deve fare la proposta che comunque transita per il CDA. Si evidenzia in questi momenti l’importanza dei rapporti fiduciari tra amministrazione e direzione artistica, giacché quella di un presidente di giuria è una nomina che completa il progetto della mostra.

Qual è il compito della Biennale oggi?
Nei decenni passati si sono verificati fenomeni che hanno provocato lacerazioni e derive tra mondo dell’arte, della musica, della danza, dell’architettura e la società civile.

Cominciamo dall’arte.
Dopo la provocazione, si sono verificati due tipi di riconciliazione tra pubblico e arte: uno attraverso il mercato e il denaro, per cui l’arte contemporanea è diventata di moda ed è presente nelle case di persone dotate di patrimoni importanti. Il secondo canale di riconciliazione è stato il design, che ha utilizzato le forme e le invenzioni dell’arte contemporanea applicandole a oggetti utili.
La riconciliazione deve però avvenire in modo diretto tra l’opera e chi la osserva, senza mediazioni utilitaristiche come il denaro o l’utilità pratica. L’opera d’arte deve produrre in chi la osserva quel vortice emotivo che induce qualche ansia ermeneutica, cioè il desiderio di vedere e di andare oltre.

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Artiglierie – courtesy la Biennale di Venezia – photo Giorgio Zucchiatti

Torniamo così al compito della Biennale.
Il vero mandato di una Biennale è essere il luogo dove si riconciliano il libero sguardo del pubblico e l’energia creativa dell’artista. Deve mantenersi alto il tema della qualità dell’opera, di quel segreto rapporto tra l’opera stessa e chi la guarda, che i filosofi tedeschi chiamano “specifico individuale” (Einzigartigkeit).

E per quanto riguarda la Biennale di Architettura?
Per l’architettura il problema della riconciliazione col pubblico è enorme. Nessuno sa cosa chiedere agli architetti, e pochi sanno rispondere alla domanda del perché ne abbiamo bisogno. Continuiamo a parlare dei nostri beni culturali come soprammobili ereditati dai nonni che vanno conservati, spolverati e curati, ma non sembriamo in grado di affrontare temi contemporanei come il nostro territorio, le nostre periferie, le nostre città. Sembriamo capaci di fare ottime scelte sulla moda e sul cibo, ma non sullo spazio in cui viviamo.
D’altro canto, troppo spesso agli architetti è stato chiesto di costruire oggetti che fossero grida in mezzo alla mediocrità. Non a caso si è affidata loro la progettazione di opere celebrative. Con la loro complicità, abbiamo usato gli architetti come dei maîtres patissier, ai quali si chiede di fare belle torte nuziali. Per questo il pubblico considera ormai gli architetti solo come i signori della festa, capaci di regalarci qualcosa d’impressionante, ma che non ha nulla a che vedere con l’organizzazione della vita individuale e civile.

Che fare?
Dobbiamo sanare la frattura tra architettura e società civile. Con Common Ground aiutiamo gli architetti a uscire dalla crisi d’identità, e nello stesso tempo offriamo al pubblico la possibilità di guardar dentro l’architettura.

C’è spazio per i giovani?
Quest’anno circa 60 università partecipano alla Mostra di Architettura grazie al progetto Biennale Sessions. Ogni università porta circa 50 ragazzi e docenti a trascorrere tre giorni con tutte le facilitazioni possibili, per guardare insieme le proposte del mondo e organizzare un seminario. Vorrei che funzionasse come molla per far capire ai ragazzi che non si può non partecipare.

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Paolo Baratta e Bice Curiger – courtesy la Biennale di Venezia – photo Giorgio Zucchiatti

E i nuovi spazi?
All’Arsenale, nelle Sale d’Armi, metteremo sia 8 Paesi che la Biennale College, l’ultima novità per coinvolgere le nuove generazioni. La Biennale College vuol dare l’occasione a coloro che hanno già fatto la scelta di impegnarsi in un’arte particolare, di lavorare con dei maestri per realizzare delle creazioni. I settori Danza e Teatro hanno già dei laboratori attivi, e con quest’anno partirà il Cinema con iniziative mirate a nuovi talenti e progetti low cost per aiutare i giovani nella loro futura vita di artisti. Vogliamo destinare una parte dell’Arsenale a residenze per questi ragazzi che lavoreranno con noi. Tutto realizzato a basso costo, considerando però che per un college con laboratori la vita in comune è fondamentale. È parte integrante dell’esperienza. Tra i vari laboratori prevediamo di avere nel giro di qualche anno, quando saremo a regime, qualcosa come circa 400 ragazzi che transitano per il college ogni anno.

Come si esce da questa situazione di avvitamento della cultura che colpisce l’Italia?
Noi siamo un antidepressivo. Si può uscire dalla crisi solo raccontando alcune verità. Incominciamo con una: negli ultimi mesi un gran numero di italiani si sono esibiti e impegnati sui giornali parlando di cultura come fenomeno importante per la nostra economia e il nostro turismo. Con questo coro di voci tutti rischiano di fare la figura degli ipocriti. Diamo al Ministero dei Beni Culturali tra 180 e 200 milioni l’anno, 3 euro per abitante! Questo è il mio contributo al dibattito sulla cultura in Italia: facciamo diventare questa somma almeno pari a 9 euro a testa (considerato che il canone Rai raccoglie 25 euro a testa all’anno)!

Suggerimenti al Governo Monti?
Fare proprio quello che sembra voler fare: ridisegnare in parte il sistema Italia con grande attenzione al funzionamento delle istituzioni e della macchina amministrativa, smascherando le scorciatoie del passato. Per quanto riguarda l’economia saprà certo che per crescere occorre competitività e che la competitività che in altre epoche era favorita da costi del lavoro bassi oggi richiede una alta qualità nei beni pubblici prodotti dalle istituzioni del paese. Per quanto riguarda la cultura si sia generosi di risorse, chiarendo agli italiani che la cultura è il futuro della loro civiltà, non una stampella per l’economia turistica!

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Felice Giani – Numa Pompilio riceve dalla ninfa Egeria le leggi di Roma – 1806 – Palazzo dell’Ambasciata di Spagna, Roma

In questi anni avrà messo in piedi una bella collezione d’arte contemporanea…
Colleziono solo Felice Giani, un pittore-disegnatore del Sette-Ottocento, che a Roma aveva creato l’“Accademia dei pensieri”. Mi è sembrato un nome di buon auspicio per il mio lavoro in Biennale!

Emanuela Avallone

www.labiennale.org

Articolo pubblicato su Artribune Magazine #8

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