Italia fantasma. Civita di Bagnoregio, la città che muore, aggrappata alla vita

Nuova tappa dell’itinerario alla scoperta dell’Italia dell’abbandono. Stavolta la destinazione è Civita di Bagnoregio, nel Lazio.

Quando, dopo una lunga serie di tornanti che si vorrebbe non finissero mai, da lontano, oscurata lungo il tragitto da una natura che si presenta rigogliosa come in pochissimi altri luoghi d’Italia, si inizia a disvelare Civita (frazione di 11 abitanti del comune di Bagnoregio, in provincia di Viterbo, nel Lazio, facente parte de i Borghi più belli dItalia) ogni dubbio, anche per i disincantati più convinti e grigi, inizia a dissiparsi dalla nostra mente: siamo davanti a un altro dei tanti miracoli che il nostro Paese, puntualmente, può sottoporci solo spostandoci di qualche chilometro, anche casualmente, sul suo territorio. Civita (di Bagnoregio) non è un caso che sia, tra le altre cose, universalmente riconosciuta con la denominazione, affascinante e così calzante, di “città che muore”. A differenza di molte altre città fantasma, infatti, è proprio questa denominazione informale e suggestiva che, addirittura più dello stesso nome ufficiale del paese, ne denota l’identità.

UNA CITTÀ CHE VIVE

Civita (di Bagnoregio), infatti, non è già morta, condizione che molti dei paesi fantasma si trovano a dover accarezzare da ormai molti anni, ma, come identificato dalla dicitura “che muore”, volteggia, moribonda, graziosa, inerme, indimenticabile, sola, in un lasso temporale non definito, difficile da intercettare mentalmente, che la vede, nei confronti della morte, in una dimensione di perenne divenire. Civita (di Bagnoregio), infatti, si lascia guardare dal mondo come una fragile foglia autunnale che proprio non vuole staccarsi dall’esile ramoscello a cui è aggrappata, in nome della vita; e ci rimane agganciata, Civita, nonostante l’inverno minaccioso all’orizzonte rappresentato dal sopravanzare delle città metropolitane, sempre più ritmiche e incandescenti al suo cospetto, e nonostante la relativa dilagante indifferenza che da questo fenomeno di estrema urbanizzazione degli altri luoghi d’Italia inevitabilmente deriva. Il ramo a cui, idealmente, “la città che muore” si aggrappa, sul piano della realtà delle cose di questo mondo, infatti, si può tranquillamente identificare nel ponte grazie a cui la città si collega al tronco d’albero dell’esistenza esterna, che scorre assai più velocemente di quanto non accada, grazie all’incanto che è sopravvissuto, all’interno della porta principale del paese: la Porta Santa Maria.

Christian Compagnoni, veduta verticale di Civita, 2020, IG @criromalario

Christian Compagnoni, veduta verticale di Civita, 2020, IG @criromalario

CIVITA DI BAGNOREGIO OGGI

Siamo nel Centro Italia e Civita (di Bagnoregio) ci appare più viva che mai, soprattutto al tempo in cui parole come “isolamento”, “quarantena”, “solitudine”, “dolore”, a causa delle vicissitudini dettate dal Covid-19 hanno attecchito nelle nostre vite più che mai. Questo grazie al fatto che, come per molti altri paesi morenti o in una condizione simile, vicina o pienamente dentro l’abbandono, anche per Civita, è avvenuto il “livellamento”, perlomeno apparente: essa appare assai analoga a qualsiasi altra città d’Italia, più o meno iperattiva in tempi di normalità, ma ora inesorabilmente, temporaneamente spenta. Come in un dolore insostenibile, per quanto elegantemente sostenuto dal promontorio che la sorregge nel bel mezzo delle valli del Fossato del Rio Torbido e del Fossato del Rio Chiaro, fragilmente adagiata sullo sperone di roccia su cui “come perla su promontorio sta”, Civita (di Bagnoregio) evoca le altezze e si slancia verso l’alto come richiamata da una qualche divinità che l’avrebbe eletta da lassù.

Arianne Peixoto, veduta orizzontale di Civita, 2020, IG @arianne.cn

Arianne Peixoto, veduta orizzontale di Civita, 2020, IG @arianne.cn

UN RIFUGIO PER GLI INTELLETTUALI

E, nel compiere questo ininterrotto moto solitario e celestiale, a sua volta ci riporta alle meravigliose e ispirate parole di Piero Calamandrei che, nel bel mezzo delle sue gite per l’Italia, nella ricerca dell’essenza e della bellezza, della tradizione e dei virtuosismi naturalistici, o più semplicemente della verità, come riporta Jean Clair nel suo libro Linverno della cultura (2011): “Negli anni pesanti e grigi nei quali si sentiva avvicinarsi la catastrofe facevo parte di un gruppo di amici che, non potendo sopportare lafa morale delle città piene di falso tripudio e di funebri adunate coatte, fuggivamo ogni domenica a respirare su per i monti laria della libertà, e consolarci tra noi collamicizia, a ricercare in questi profili di orizzonti familiari il vero volto della Patria”. E poi, continua: “Io pensavo che qualcosa di eterno ci deve essere, se noi prendiamo tanto gusto ed affezione a queste nostre gite: nelle quali circola nel nostro pensiero una parola che non diciamo, per pudore, ma che pure, a ripensarla così di paese in paese, torna nuova, e pura: Patria!”. Vincenzo Trione e Tommaso Montanari, nel loro libro Contro le mostre (2017), adeguatamente infatti, aggiungono: “Nel gruppo di viaggiatori si contavano anche Nello Roselli, Alessandro Levi, Guido Calogero, Attilio Momigliano, Ugo Enrico Paoli, in qualche occasione Leone Ginzburg”. E chiosano perfettamente commentando: “Era il vertice della cultura italiana […]. Fu unesperienza profondissima”.
Un’esperienza profondissima che pareggiò ‒ già allora ‒ ogni cosa, come forse solo oggi accade dopo tanto tempo. Un tempo in cui, di nuovo, come allora, in alcuni dei luoghi più remoti d’Italia, sebbene essi debbano soggiacere alle parole che li inquadrano come “morenti”, si può sicuramente trovare la vita, oltre che l’essenza, di una Nazione.

Luca Cantore D’Amore

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Luca Cantore D'Amore

Luca Cantore D'Amore

Luca Cantore D’Amore (Salerno, 1991) consegue tre corone d’alloro: in Architettura d’interni e Interior Design, al Politecnico di Milano, e in Storia dell’Arte. Si occupa di storia e critica dell’arte, scrivendo articoli di giornale, testi per riviste di settore e…

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