Prime impressioni da MIA Fair Milano: scettici smentiti, ma ora più coraggio…

Se bisogna dirla tutta, negli ultimi mesi, c’è stato un gran parlare, un bisbigliare sottovoce, all’interno del piccolo mondo della fotografia italiana. Perché MIA voleva proporsi come una fiera un po’ diversa, un po’ più libera e un po’ più spregiudicata. In cui i fotografi – selezionati da un comitato scientifico – potessero avere un […]

Se bisogna dirla tutta, negli ultimi mesi, c’è stato un gran parlare, un bisbigliare sottovoce, all’interno del piccolo mondo della fotografia italiana. Perché MIA voleva proporsi come una fiera un po’ diversa, un po’ più libera e un po’ più spregiudicata. In cui i fotografi – selezionati da un comitato scientifico – potessero avere un proprio stand e proporre il loro lavoro al pubblico senza l’intermediazione delle gallerie. Un format che, secondo Fabio Castelli, negli Stati Uniti trova da parecchi anni un ampio consenso. Ma si sa (o si poteva almeno supporre) che l’Italietta di oggi – quanto a libertà (e perché no, anche a liberismo) – non è esattamente alla stregua dell’America di Obama. Né la fotografia italiana ha dietro di sé il medesimo apparato critico e curatoriale, né sistemi museali o percorsi universitari che siano anche lontanamente paragonabili a quelli d’oltreoceano, o semplicemente europei e che possano dunque costituire la struttura imprescindibile sulla quale avrebbe dovuto poggiare il sistema fieristico proposto da Castelli. In un mondo piccolo e fragile come questo – in cui i pochi operatori hanno spesso dovuto far fronte alla propria istruzione in maniera autodidatta – l’idea di Fabio Castelli è apparsa se non come un azzardo, quanto meno audace. Né si poteva scavalcare con nonchalance il sistema delle gallerie.
Le fazioni all’interno del mondo dell’arte (e ancor più della fotografia) per cui ogni scetticismo è lecito verso qualsiasi proposta outsider rispetto al proprio giro, hanno avuto di che parlare. Son girate parecchie voci, su questa MIA. Molti non si sono fidati e non hanno partecipato. Quei molti, si sono ricreduti.
Perché la fiera, seppur fatta con pochi mezzi, è molto curata. E nobile è la scelta di proporre un solo autore per ogni stand e dunque di metterne in luce il percorso artistico individuale. Se è vero che in questa prima edizione gli espositori sono per lo più italiani, sono invece molti gli autori internazionali presentati. E nella sezione dedicata alle gallerie si incontrano lavori e opere interessanti, dai notissimi Luigi Ghirri e Lee Friedlander, ad altri più o meno conosciuti come Francesco Radino, Tancredi Mangano, Leonora Hamil, Andrea Galvani, Alvaro Sanchez-Montanes, Bruna Biamino, Maria Magdalena Camons Pons, Soren Lose, Daniel Canogar e Michele Buda, solo per fare alcuni nomi. Preziosa è anche la sezione dedicata all’editoria. Mentre nel giovane panorama italiano, a farla da padrona è Roma, dove emergono gli interessanti progetti di Officine fotografiche con Tre Terzi, Mandeep e Senza Titolo.

Rimane debole purtroppo, per quest’anno, quella che originariamente doveva essere la punta di diamante di questa fiera. Ossia la sezione dedicata alle Proposte, con i fotografi non rappresentati da gallerie. Ed è un peccato, perché sarebbe potuta diventare un’occasione stimolante per conoscere i nuovi talenti emergenti. Qualche buon nome c’è (Marco Campanini e Alessandro Belgiojoso, ad esempio), ma si contano sulle dita di una mano. E questi nomi li conoscevamo già.

Francesca Mila Nemni

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