A Venezia il progetto di Lena Herzog contro l’estinzione delle lingue. L’intervista

Si intitola “Last Whispers” l’ambizioso progetto che Lena Herzog ha presentato a Venezia durante i giorni di apertura della Biennale. Strutturata in diverse fasi, l’opera si avvale della realtà virtuale per approfondire un problema molto importante, ma del quale si parla troppo poco: la rapida scomparsa di lingue e dialetti di tutto il mondo. Abbiamo intervistato l’artista

La lingua è il primo atto creativo di ognuno di noi”. Con queste parole tanto semplici quanto pregne di significato, Lena Herzog (1970) ha svelato al pubblico veneziano il cuore di quello che forse è il suo progetto artistico più ambizioso. Stiamo parlando di Last Whispers: Immersive Oratorio for Vanishing Voices, Collapsing Universes and a Falling Tree, un’esposizione impressionante fruibile fino al prossimo 30 settembre presso le affascinanti tese di CFZ Ca’ Foscari Zattere e anche presso la sede principale dell’Università Ca’ Foscari di Venezia.
Promossa dall’UNESCO, la rassegna approda in Laguna grazie alla cura e al prezioso lavoro di Silvia Burini, Giulia Gelmi, Anastasia Kozachenko-Stravinsky e Maria Gatti Racah del Dipartimento di Filosofia e Beni Culturali di Ca’ Foscari. Concepita attraverso un percorso espositivo che unisce due diversi spazi dell’ateneo, la rassegna è formata da un memoriale dedicato a tutte quelle lingue in pericolo, o addirittura dichiarate già estinte (si pensi che ogni due settimane il mondo perde una lingua), e da una poetica esperienza in Realtà Virtuale immaginata come un vero e proprio oratorio immersivo. Affrontando un problema così urgente quanto sottovalutato come quello dell’estinzione di massa della lingua, il progetto si configura perfettamente all’interno del Decennio internazionale delle Lingue indigene 2022-2032 voluto dall’Assemblea Generale dell’ONU e dalla stessa UNESCO.

INTERVISTA A LENA HERZOG

Il concept alla base di Last Whispers ruota intorno al problema della sempre più progressiva scomparsa delle lingue nel mondo. Puoi dirci qualcosa sulla genesi di questo progetto?
Il tema centrale è l’estinzione della lingua, e, trattandosi di linguaggio (che è il nostro strumento fondamentale per pensare, per capire, per sentire, vedere ed essere), possiamo dire che si tratta di un progetto filosofico. La genesi di Last Whispers sta avvenendo proprio adesso poiché quando si pensa all’estinzione si pensa alla fine, certo – l’estinzione è la fine –, ma sicuramente si pensa anche all’inizio e a cosa significhi avere una “casa culturale collettiva”. Il modo in cui noi siamo è definito dal modo in cui pensiamo e il modo in cui pensiamo è definito dalle nostre lingue. Un’estinzione di questa proporzione, che è un’estinzione di massa, è quindi un’estinzione di modi di essere all’interno della sfera della comprensione. La sfida per affrontarla è sia culturale che estetica e filosofica. È questa dunque la genesi del progetto, è molto complesso e stratificato ma, allo stesso tempo, anche abbastanza semplice.

E cosa ci dici della collaborazione con l’UNESCO?
Il progetto è presentato dall’UNESCO, che mi ha dato la possibilità di lavorare con l’UNESCO Atlas of the world’s languages in danger. La collaborazione però non è stata solo con l’UNESCO, ho collaborato con tutti gli archivi del mondo. La mia più grande collaborazione è avvenuta con il programma Endangered Languages Archive, della SOAS, University of London, coordinato da Mandana Seyfeddinipur.
Questa che si vede qui è la lista delle lingue dell’UNESCO, un memoriale comprensivo di liste provenienti da tutto il mondo: tanto dalla Library of Congress, negli Stati Uniti, quanto dal gruppo di ricercatori di Mandana, composto per lo più da linguisti esperti del settore. Una delle cose che questi ultimi stanno cercando di capire è, ad esempio, la definizione precisa di concetti come “estinzione” o “pericolo”, perché il problema non è rappresentato solo dal numero di persone che parlano quella lingua ma anche dall’età di ciascuno di loro. Per esempio, se ci trovassimo davanti a una lingua usata da 20mila o 20 milioni di persone, la cui età però è superiore ai 60 anni, la lingua in questione sarebbe criticamente in pericolo poiché non viene parlata da nessun giovane. Vi sono tante categorie che entrano in gioco e anche molte cose che avvengono nel frattempo. Pensiamo alla lingua Ahom, ritenuta estinta dall’UNESCO quando invece noi conosciamo il suo unico custode, Tilshua Mohan. Con la sua approvazione, abbiamo trovato il modo di sostenerlo economicamente e abbiamo trovato anche il modo per assicurarci che stesse bene e al sicuro.

Pensando al nome stesso del progetto, verrebbe da chiederti cosa pensi del silenzio e quando credi che possa diventare pericoloso.
Quando siamo in silenzio, noi persone delle culture dominanti, probabilmente è una buona cosa perché parliamo troppo, ma quando l’ultimo oratore di una lingua perduta smette di parlare o muore, ad andarsene è un mondo intero. Questo è un impoverimento. Mi viene in mente un meraviglioso scrittore e filosofo come John Berger che tanto ha scritto di un certo tipo di silenzio, lo stesso che sto cercando di affrontare io: il silenzio delle persone che non hanno un posto nel mondo, che non hanno più spazio nel mondo. Berger diceva che il silenzio è come una mano tesa, e per me il silenzio di queste lingue è come una mano tesa. Io quella mano voglio afferrarla e vorrei che noi tutti la raggiungessimo.

FOTOGRAFIA E REALTÀ VIRTUALE SECONDO LENA HERZOG

E cosa pensi invece dell’enorme impatto delle immagini all’interno della nostra epoca? Che possa essere uno dei motivi per cui le lingue continuano a sparire?
Questo è un pensiero molto interessante poiché oggi c’è indubbiamente un’enorme sovrapproduzione di immagini. Pensa a me per esempio: nasco come fotografa, ma quando ho iniziato avevo a che fare con negativi di grande formato che maneggiavo nel mio laboratorio personale all’interno della camera oscura. Di solito faccio pochissime foto, che sviluppo con le mie sostanze chimiche e che stampo a modo mio nella camera oscura. Quello che voglio è la disciplina, voglio avere il controllo su ciò che vedo e ciò che sento. Quello che faccio è un prestare davvero molta attenzione e penso che dovrebbe esserci un equilibrio, un’armonia, tra il “come si vede” e il “come si sente”. E questo implica di nuovo attenzione e concentrazione, concentrazione e attenzione.

E poi, dalla fotografia analogica sei passata alla Realtà Virtuale. Come mai hai deciso di realizzare questo progetto proprio in VR?
Ho deciso di usare il medium della Realtà Virtuale perché l’idea lo richiedeva, e l’idea era quella di capire come si affronta l’assenza. Ovviamente, un’assenza si affronta rendendo presente qualcosa, e la Realtà Virtuale lo fa in un modo così vivido che difficilmente si ritrova da altre parti. Così ho deciso di creare un senso sia per la presenza di queste voci che per il mondo realizzando un lavoro fatto non solo di suoni ma anche di immagini. Ho creato dei paesaggi che ho voluto si stagliassero nell’anima e nel cuore di tutti per ospitare questi mondi. Ed è per questo che la Realtà Virtuale ci è sembrata la strada giusta da percorrere. Di fatto, la prima edizione di Last Whispers, quella che ha debuttato al British Museum nel 2016, consisteva solo in un video in una cornice, supportato da un suono spazializzato, non surround, ma con le voci spazializzate: voci di qua, altre voci di là e così via. Avendo spazializzato il suono il tutto era diventato una scultura sonora. Ciò che accadde al British Museum fu che il pubblico non faceva altro che dirmi di voler vedere immagini ovunque. Questo avviene perché il cervello prova a collegare il suono all’immagine dal momento che l’immagine si trovava nella cornice, mentre il suono no. Il suono era ovunque. Per questo motivo i visitatori lo volevano ovunque. In altre parole, volevano sentirsi calati nel mezzo.

E invece con la Realtà Virtuale?
Quello che ho creato in VR esiste sia in quanto Realtà Virtuale sia come proiezione immersiva, completamente immersiva. In questo modo è possibile fruire dell’esperienza proiettando il video in VR nelle stanze, dentro delle sfere o nell’ambiente di un planetario, come in una cupola. Così facendo, quello che si vede nei visori può anche essere proiettato. Ancora una volta lo scopo è quello di affrontare l’idea di rendere l’assenza di quelle presenze così vivida da fartene sentire la mancanza, e ti sembra perfino di averle già conosciute quelle persone, e di viaggiare attraverso paesaggi che ti consentono il raggiungimento di uno stato estetico. Voglio mettere il fruitore in una condizione in cui quelle presenze possa sentirle, in cui possa avvertirle.

In effetti una delle cose più interessanti della Realtà Virtuale è proprio questo contrasto molto forte che si viene a creare fra il concetto di evanescenza e la sensazione di sentirsi all’interno di un qualcosa…
Sì, oltre all’idea stessa, ciò che mi interessava molto era come fare a rendere un’idea piena di vita. Questo è il compito veramente importante. Per esempio, quando faccio fotografia nella camera oscura – perché sono una ragazza analogica –, lo faccio con tecniche che venivano utilizzate agli albori di questa tecnologia, agli inizi della fotografia. Perché mi interessa lavorare in questo modo? Non è per motivi sentimentali. Mi interessa perché quando i fotografi erano agli inizi, ogni cosa era aperta. L’orizzonte era aperto: non conoscevano limiti. E questo si riflette nella tecnologia di quell’epoca, lo si può sentire, lo si può percepire. La Realtà Virtuale è una tecnologia in fasce, è una tecnologia agli inizi. Quindi molti suoi aspetti sono ancora grezzi. E la magia spesso si trova nei margini grezzi, quando le cose non sono ancora sistemate, quando non sono appianate. È allora che si può effettivamente esplorare qualcosa poiché aperto.

Cosa pensi, a questo punto, della fragilità delle nuove tecnologie?
Beh, la fragilità è sempre stata insita nelle nuove tecnologie, adesso è esagerata perché è la nostra stessa fragilità ad apparirci così evidente. E penso che col tempo questa sensazione lo sarà sempre di più. Quindi la tecnologia è un’espressione di noi, del nostro tempo, ma è anche possibile che noi non lasceremo traccia di tutto ciò poiché tutte queste cose digitali un giorno saranno obsolete e all’improvviso guarderemo alle uniche cose che saranno davvero sopravvissute come dipinti e vecchi dagherrotipi. Questa è assolutamente una possibilità. Ma ci sono altre forme artistiche simili, pensiamo alla danza. Nietzsche diceva che tutta l’arte aspira alla musica, ma lui era anche molto affascinato dalla danza che è una forma molto effimera: accade solo in quel momento, anche se viene registrata.

Valerio Veneruso

https://www.lastwhispers.org/

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Valerio Veneruso

Valerio Veneruso

Esploratore visivo nato a Napoli nel 1984. Si occupa, sia come artista che come curatore indipendente, dell’impatto delle immagini nella società contemporanea e di tutto ciò che è legato alla sperimentazione audiovideo. Tra le mostre recenti: la personale RUBEDODOOM –…

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