Il primo “museo invisibile” per “opere invisibili”: nasce OTO Sound Museum

Fondato dal collettivo curatoriale Zaira Oram, il nuovo museo digitale nasce in contrapposizione alla saturazione di immagini su web, dando la priorità al linguaggio sonoro. Intervista alle fondatrici

Il 2020 ha avuto un impatto decisivo sulle modalità di fruizione delle opere e dei contenuti culturali in generale. A causa delle continue restrizioni e chiusure subite da musei, fondazioni, gallerie, cinema e teatri, abbiamo assistito alla digitalizzazione di mostre, collezioni, fiere e aste. Abbiamo visto la proliferazione di podcast e materiali audiovisivi fruibili da remoto; stanno addirittura nascendo gallerie e fiere esclusivamente online. All’interno di questo scenario, è nato il collettivo curatoriale Zaira Oram, avviato dalle due curatrici italiane di base a Zurigo, Francesca Ceccherini ed Eleonora Stassi, con la partecipazione di Chloé Dall’Olio e Camille Regli: l’obiettivo è riflettere sulle trasformazioni avvenute recentemente nel panorama culturale, portando il suono al centro di una nuova azione. Così Zaira Oram ha dato vita a OTO Sound Museum, il primo “museo invisibile per opere invisibili”, un contenitore digitale dedicato esclusivamente alla sperimentazione del linguaggio sonoro. La data ufficiale di partenza è il 21 gennaio 2021, quando sarà presentata la prima opera dell’artista svizzero Zimoun. I 10 artisti che occuperanno il palinsesto del primo anno di vita del museo, con un’opera sonora al mese, sono Paloma Ayala(1980, Messico), Ari Benjamin Meyers(1972, USA), Axel Crettenand(1989, Svizzera), Magda Drozd(1987, Polonia), Vanessa Heer(1989, Svizzera), Jurczok 1001(1974, Svizzera), Polisonum(Collective, Italia), Luca Resta(1982, Italia), Jo Thomas(1972, Regno Unito), Zimoun(1977, Svizzera). Di OTO Sound Museum ce ne parlano in anteprima Francesca Ceccherini ed Eleonora Stassi in questa intervista.

Zaira Oram - Photo Axel Crettenand

Zaira Oram – Photo Axel Crettenand

OTO Sound Museum. Con quali presupposti nasce?
Il progetto è nato nel 2020 durante il tempo del confinamento. Il tempo anche della ri-semantizzazione forzata dei nostri confini e della libertà di spostamento degli individui. L’idea di OTO è cresciuta da una riflessione sulla recente fenomenologia del visivo, osservando la reazione del sistema culturale di fronte alla chiusura dei luoghi dell’arte quando il mondo intero si stava fermando: improvvisamente tutto è divenuto immagine, spingendo l’acceleratore sua una rinnovata riproducibilità – una via di fuga per intere collezioni, musei, studi, mostre – che ha invaso il grande serbatoio digitale in una proposta senza fine e che ha generato un fitto horror vacui. Questa sintomatologia della nostra contemporaneità, farcita di immagini digitali ad un ritmo incessante, è anche tornata a evidenziare la nostra paura del vuoto senza lasciare il tempo di un respiro, con rari spazi dedicati a un pensiero e uno sguardo liberi.

Come avete reagito a tutto questo?
È un fenomeno che ci ha posto di fronte a diversi interrogativi. Tra questi: in quanto operatori culturali cosa possiamo offrire in termini di esperienza a distanza? Come possiamo oggi costruire percorsi capaci di sollecitare l’immaginazione? Nella costruzione di un’esperienza con l’arte, abbiamo prima di tutto scelto di assumere una veste iconoclasta, escludendo l’utilizzo di ri-produzioni e di immagini date.

Spiegateci meglio…
Pensiamo che la fruizione in presenza di un’opera d’arte visiva sia raramente sostituibile in termini di autenticità, è una posizione che difendiamo sin dall’inizio. Allo stesso tempo abbiamo anche scelto di non escludere le opportunità che la tecnologia può mettere a disposizione: il suo essere un potente mezzo di diffusione, una grande cassa di risonanza capace di parlare al mondo intero. Ci siamo orientate proprio verso l’idea di una voce, quindi di un suono. La volontà era spogliarci di immagini imposte e sollecitare esperienze libere di visualizzazione: come diceva Bruno Munari “l’immaginazione vede” e sono gli occhi della mente – a differenza dell’organo visivo, ormai saturo – a consentirne tale sguardo. L’udito è l’apparato che più di ogni altro, insieme all’olfatto, è in grado di intercettare esperienze con l’invisibile, con ciò che è lontano o inaccessibile. Questo è uno dei motivi per cui ci siamo rivolte al suono, un linguaggio antico e iper-contemporaneo, che si muove libero nel tempo e nello spazio, capace di raggiungerci all’interno della nostra quotidianità o portarci lontano nella memoria. Il suono è per sua natura intangibile, per antonomasia il linguaggio della migrazione, da sempre il linguaggio della protesta capace di superare i molti confini che abitano la nostra civiltà.

Dopodiché come avete mosso i primi passi all’interno del vostro progetto?
Abbiamo fondato il collettivo Zaira Oram. Entrambe proveniamo da esperienze legate alla sperimentazione delle arti visive e del suono – che è anche una profonda passione personale. Ci accomuna l’urgenza di parlare di migrazione, un tema che Zaira porta con sé anche in questo museo facendone un punto cardinale. Attraverso queste premesse abbiamo giocato immaginando un museo contenente opere invisibili, ossia opere sonore, pensando alle Città Invisibili di Italo Calvino – una delle quali da anche il nome al nostro collettivo – e, ancora una volta, al “Museo Inventato” di Munari.

Cos’è, quindi, Zaira Oram?
Zaira Oram è un collettivo curatoriale che sviluppa display sperimentali e progetti multidisciplinari. Dietro Zaira c’è un gruppo di donne, è un’identità aperta che viaggia e si trasforma lungo il suo percorso. Per questo ci piace definirla gender-fluid. Zaira sviluppa ricerche sul suono, su arti visive e performance. Tra le sue tematiche principali il femminismo contemporaneo, l’identità, la resistenza e, chiaramente, la migrazione.

Torniamo invece a OTO Sound Museum. Quando aprirà (digitalmente) e come funzionerà?
Il primo progetto sonoro partirà il 21 gennaio su www.oto.museum. Per il 2021 saranno presentati dieci artisti di diverse geografie, generazioni e pratiche. Tra di loro vi sono compositori, artisti sonori, autori che utilizzano esclusivamente la voce ed anche artisti prettamente visivi che sperimentano con il linguaggio sonoro. Un’opera al mese sarà allestita all’interno di una architettura digitale composta di due sfere e ispirata al Cenotafio di Newton, il progetto utopico dell’architetto Étienne-Louis Boullée. Qui sarà ospitata una mostra personale di mese in mese: l’esperienza sarà interamente dedicata all’ascolto con opere inedite, commissionate o mai pubblicate prima d’ora.

Quindi si parla di un museo totalmente smaterializzato che tale resterà sempre?
Forse si, per ora ci piace pensare che il museo potrà viaggiare per raggiungere le persone. Anche se, sin da ora, abbiamo immaginato appuntamenti anche nello spazio reale per presentare alcune delle sue opere e degli artisti invitati. Nel corso del 2021 realizzeremo performance e installazioni sonore in quattro istituzioni partner con le quali abbiamo costruito da subito una rete di scambio: la Kunst Halle di Sankt Gallen, la rada di Locarno, il MigrationsMuseum di Zurigo e il Krone Couronne di Bienne. L’idea è che questi spazi siano essi stessi veicoli capaci di far migrare il suono. La volontà di OTO Sound Museum è, infine, costruire una collezione permanente fatta di opere sonore, un archivio che potrà essere a disposizione anche per la ricerca: per questo la collaborazione che abbiamo avviato con RAM – Radio Arte Mobile di Roma, pioniera nella raccolta e presentazione di opere d’arte sonora, è per noi davvero significativa.

– Giulia Ronchi

www.oto.museum 
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Giulia Ronchi

Giulia Ronchi

Giulia Ronchi è nata a Pesaro nel 1991. È laureata in Scienze dei Beni Culturali all’Università Cattolica di Milano e in Visual Cultures e Pratiche curatoriali presso l’Accademia di Brera. È stata tra i fondatori del gruppo curatoriale OUT44, organizzando…

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