Moda sostenibile e moda responsabile. Fra sogni e contraddizioni

Non è un mistero: l’industria della moda è una delle più inquinanti al mondo. E allora come correre ai ripari e fare scelte davvero responsabili?

Un’altra stagione di fashion week sta per iniziare. Il 9 settembre parte New York, a seguire arrivano Londra, Milano, Parigi. Il problema della sostenibilità delle produzioni legate al comparto moda però non è cambiato. O forse è addirittura peggiorato. Ogni anno vengono create milioni di tonnellate di rifiuti tessili e, stando ai report delle Nazioni Unite, l’industria della moda è responsabile del 10% delle emissioni di carbonio. Il rapporto del World Economic Forum nel 2021 ha indicato questa produzione come il terzo più grande inquinatore del pianeta. È previsto che entro il 2030 il consumo globale di abbigliamento aumenterà dai 62 milioni di tonnellate annue attuali a 102 milioni.
Sono passati oltre dieci anni (era il 2009) da quando a Copenaghen si tenne uno dei primi summit sulla “moda sostenibile”. A progettarlo fu il Danish Fashion Institute in concomitanza con il COP15 delle Nazioni Unite. Allora era sembrato un avvenimento poco rilevante, ora però non c’è Ceo del settore moda ‒ che si tratti di fast fashion o di lusso ‒che non si prodighi in dichiarazioni nelle quali annuncia di aver messo la sostenibilità al centro dei propri piani strategici.
Nel 2018 l’U.N.F.C.C.C. (l’organismo delle Nazioni Unite per il cambiamento climatico) ha presentato la Carta dell’industria della moda per l’azione per il clima, indicando come obbiettivo il raggiungimento di zero emissioni nette di carbonio entro il 2050. Nel 2019 è arrivato il Fashion Pact creato da Emmanuel Macron con François-Henri Pinault, amministratore delegato di Kering, secondo gruppo del lusso al mondo. Nel 2020 è arrivata la Climate week di LVMH (primo gruppo del lusso al mondo). In coincidenza con COP26 del 2021 a Glasgow di nuovo l’U.N.F.C.C.C. ha sottolineato la necessità di dimezzare le emissioni almeno entro il 2030. Tuttavia la sostenibilità delle produzioni legate alla moda resta lontana, molto lontana. E questo nonostante il diluvio pubblicitario di dichiarazioni di buona volontà: tant’è che l’Unione Europea ha previsto un’iniziativa di verifica delle rivendicazioni “verdi” che richiede alle aziende di certificare la consistenza delle loro affermazioni attraverso il controllo effettuato da terze parti.

Golden Goose Yatay Model 1B

Golden Goose Yatay Model 1B

CHE COSA SIGNIFICA MODA RESPONSABILE

Direttive virtuose o meno, la realtà è un’altra perché il termine “moda sostenibile” è un ossimoro. “Moda” di per sé significa cambiamento e consumo accelerato non legato a una reale necessità ambientale. “Moda” significa innanzitutto autorappresentazione, persino attraverso un avatar, persino attraverso la scelta di abbigliamento e skin, come appare sempre più evidente dall’accelerazione di presenza dei brand nel metaverso. Anche la Generazione Z sta dando segnali di tutt’altro genere rispetto alle aspettative di chi si era illuso di aver trovato straordinari compagni di viaggio verso la meta delle “emissioni zero”. Gli appartenenti alla Gen Z sono certamente più coscienti dei pericoli legati alla crisi climatica, ma non si dimostrano meno propensi ad acquisti sempre e comunque in crescita. Acquistare oggetti riciclati o costruiti con materiali di riciclo non significa niente se la frequenza accelera.
Non esiste del resto alcuna ricetta facile per risolvere il problema dell’impatto negativo che la moda ha nella crisi climatica in corso. Perché ridurre i consumi ha ovvie implicazioni negative per l’occupazione, particolarmente nei Paesi produttori che sono nella grande maggioranza anche i meno sviluppati del pianeta. Il dilemma per ognuno di noi (consumatori, amministratori delegati, designer, comunicatori, allevatori, contadini o commercianti) piuttosto è quello di valutare gli effetti delle scelte che facciamo, in modo da poterne fare di migliori in futuro.
Se “moda sostenibile” è un ossimoro, non ci resta che fare un passo di lato e cominciare a ragionare intorno a una “moda responsabile” Magra consolazione?  E sia: meglio accettare la realtà e metterci alla ricerca di nuove opportunità creative, sostenendo nei fatti chi prova a reagire dando forma a nuovi modi di pensare e progettare.

IL CASO GOLDEN GOOSE

Uno dei prodotti di moda più difficili da smaltire sono le sneaker. Prodotte a miliardi ogni anno, si accumulano in quantità terrificante tanto negli oceani che nelle discariche a terra. A Milano in via Cusani, nel quartiere di Brera, Golden Goose sta proponendo un’alternativa ‒ certo, un granello di sabbia nel deserto, ma pur sempre qualcosa su cui riflettere. Si tratta della riparazione artigianale. Dopo essersi creata un nome con sneaker fatte a mano dai prezzi non proprio per tutti, l’azienda veneta si sta concentrando ora sulle riparazioni. Nel 2000 i fondatori applicarono un approccio inconsueto alla produzione, vecchio stile ma assolutamente innovativo per scarpe del genere: invece di vulcanizzare la suola in gomma per saldarla alla tomaia, hanno pensato di utilizzare le tradizionali cuciture a mano in uso per le scarpe di cuoio, specialmente per quelle maschili. Acquisita dalla finanziaria britannica Permira nel 2020 per 1,3 miliardi di euro, Golden Goose oggi fabbrica più di un milione di paia di sneaker all’anno utilizzando questa tecnica in otto stabilimenti, in Veneto ma anche nel resto della penisola. Il modello più recente è anche il più innovativo. Yatay Model 1B utilizza materiali a basso consumo di acqua prodotti da fonti vegetali non commestibili, creati in collaborazione con il produttore italiano Coronet.
Nella boutique di Milano, le vetrine espongono sneaker nuove e sneaker semi riadattate. Non facili da discernere poiché ‒ in linea con la filosofia della “perfetta imperfezione” di Golden Goose ‒ le une e le altre sfoggiano sfilacciature e graffiti inchiostrati. Il listino prezzi dei servizi proposti per “risvegliare” queste sneaker artigianali indica costi intorno ai 70 euro.
Il negozio, oltre alle postazioni in cui vengono eseguite le riparazioni, ospita cassonetti per il riciclaggio di qualsiasi marca di vestiti e scarpe da immettere sul mercato in collaborazione con la piattaforma per vendite di vintage R-Cycled. In questo spazio i calzolai indossano tute che sulla schiena portano stampigliata la scritta “Dream Maker”.

Aldo Premoli

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Aldo Premoli

Aldo Premoli

Milanese di nascita, dopo un lungo periodo trascorso in Sicilia ora risiede a Cernobbio. Lunghi periodi li trascorre a New York, dove lavorano i suoi figli. Tra il 1989 e il 2000 dirige “L’Uomo Vogue”. Nel 2001 fonda Apstudio e…

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