Fashion e biodiversità. Uno sguardo alle industrie dell’abbigliamento

Come affrontano le urgenze ambientali i più importanti brand di moda al mondo? Aldo Premoli offre una panoramica in termini di sostenibilità, a pochi giorni dalla conclusione della Milano Fashion Week.

La produzione di capi e accessori moda non è solo tra le principali cause dell’aumento di CO2 nell’atmosfera, ma contribuisce decisamente al rapido declino della biodiversità: sono queste le conclusioni dell’allarmante rapporto pubblicato dalle Nazioni Unite all’inizio del 2019.
I dati sono terribili (sì, terribili!): dal 1970 a oggi il pianeta ha perso – per sempre – oltre il 50% dei suoi vertebrati e poco meno del 20% delle sue antiche foreste del mondo.
I killer? Tra i principali indiziati da una parte l’utilizzo di pelle e pelliccia e dall’altra la produzione di viscosa. Certo non è solo l’industria dell’abbigliamento la causa: l’allevamento intensivo di carni da macello si basa su pratiche altrettanto nocive e l’industria alimentare infatti ha iniziato a trasformare le sue pratiche: in risposta alla pressione pubblica qualcosa sta accadendo anche nel tessile-abbigliamento, seppure non abbastanza velocemente come invece sarebbe necessario.

PELLE E PELICCE

Utilizzata per abbigliamento, scarpe (fortunatamente sempre meno) e borse, la pelle è uno dei prodotti più redditizi del settore zootecnico, ma l’inquinamento idrico legato alla concia causa zone “morte” lungo le coste dove i corsi d’acqua entrano in mare con conseguente degrado delle barriere coralline, oltre a gravi problemi per la salute umana. Per aver conosciuto da vicino questo settore, immagino già l’obiezione: “L’industria conciaria europea, e quella italiana in particolare, è forse la più avanzata al mondo quanto a pratiche ambientali”. Ma si tratta di una difesa un po’ ipocrita: i processi di concia più devastanti sono oggi praticati in Paesi terzi, dove i controlli sono quasi inesistenti. A ciò va aggiunto che allo stato attuale anche la piccola percentuale di approvvigionamento proveniente dagli animali selvatici ancora uccisi per pelli e pellicce è un colpo diretto all’ecosistema.

Global Assessment Animation from GlobalGoalsUN on Vimeo.

VISCOSA

Spesso scambiata per una fibra ecologica, la produzione di viscosa e altre fibre a base di cellulosa guida la deforestazione in Amazzonia, Indonesia, Nord America e altrove. Più di 150 milioni di alberi vengono utilizzati per ottenere queste fibre in un solo anno. La viscosa è infatti una fibra molto “inefficiente”: Occorrono 4,5 tonnellate di alberi per produrre una tonnellata di viscosa. Ma l’80% della biodiversità terrestre dipende dalle foreste: sparite le foreste, a seguire spariscono gli animali che le popolano.

LANA, CASHMERE E COTONE

Sono altri pericolosi protagonisti della perdita di habitat e del degrado del suolo. La maggior parte delle praterie della Mongolia si sta lentamente trasformando in un deserto: il pascolo eccessivo del bestiame – qui in particolare le capre per il cashmere ‒ è responsabile dell’erosione di decine di migliaia di ettari. Anche in questo caso non si tratta solo di erba e suolo: a essere minacciata è in primo luogo la gamma di animali selvatici che popolano la zona, alcuni dei quali già rari o decisamente in via di estinzione: leopardi delle nevi, stambecchi, aquile reali e gufi boreali. Il materiale di origine naturale più comune nell’abbigliamento è invece il cotone: da solo vale un terzo di tutte le fibre tessili impiegate e ci è sempre stato “venduto” come sinonimo di salute. Ma la sua coltivazione intensiva a monocoltura ha sostituito la vegetazione autoctona sul 2,4 % delle terre coltivate del mondo. Per farlo crescere si utilizza il 16 % di tutti gli insetticidi prodotti al mondo: sono loro gli stragisti colpevoli di aver fatto precipitare le popolazioni di impollinatori e la biodiversità nel suolo.

GESTIRE IL CAMBIAMENTO

Per rispondere a queste evidenze l’industria dell’abbigliamento ha cominciato a muoversi: molto (troppo) lentamente, e solo a partire dal 2019, la biodiversità è stata presa in seria considerazione all’interno del Fashion Pact firmato (tra gli altri da Zara, H&M, Kering, Nike, Prada, Chanel, ma non da LVMH, il più potente conglomerato del lusso esistente) durante il vertice G7 tenutosi lo scorso agosto a Parigi. Da quel momento almeno alcuni marchi di moda hanno cominciato a misurare il loro impatto su specie ed ecosistemi chiave.
Kering (Gucci, Balenciaga, Bottega Veneta, Saint Laurent…) sta provando a cambiare la sua strategia di approvvigionamento. E la comunicazione in questo senso si è fatta aggressiva. Alla testa di una speciale sezione dedicata alle pratiche green e alla comunicazione delle stesse del gruppo c’è ora Marie-Claire Daveu, Chief Sustainability Officer.

Una equivalente di Daveau ce l’ha pure LVMH, attualmente la prima conglomerata del lusso al mondo. Si chiama Sylvie Bénard e ha il suo bel da fare a spiegare perché il suo patron Bernard Arnault non abbia firmato il Fashion Pact. Certo, per LVMH la situazione è complessa: il 59% dei suoi ricavi annui (38,4 miliardi di euro) non proviene da aziende di abbigliamento; tra i 75 marchi che governa compaiono gioielli, orologi, profumi, catene alberghiere, vini e liquori e per molti di questi gli obbiettivi ambientali contenuti nel Fashion Pact sono assai difficili da raggiungere. LVMH comunque non è rimasto immobile: nel 2019 ha acquisito una partecipazione di minoranza in Stella McCartney (un’antesignana della sostenibilità nel tessile) e ha nominato la stessa consulente speciale per la sostenibilità. Ha anche fatto un investimento in Gabriela Hearst, che ha recentemente collaborato con la consulenza Eco Act per il suo primo show a emissioni zero. Per lo show Dior p/e 2020, Maria Grazia Chiuri ha preteso 164 alberi che sono stati ripiantati dopo lo spettacolo, per evidenziare l’importanza della biodiversità.

Levi’s, è un’azienda che ha mostrato di impegnarsi seriamente in questa direzione.
Ha collaborato a lungo con l’International Finance Corporation per aiutare i fornitori a investire in fonti energetiche rinnovabili e più efficienti: uno sforzo abbastanza unico che altri marchi considerano un potenziale modello. Lo scorso settembre poi ha lanciato Wellthread, una collezione che per la filatura utilizza una miscela di cotone e canapa, quest’ultima capace di crescere utilizzando meno acqua e meno sostanze chimiche nocive per il suolo. Anche il processo di finissaggio dei capi è stato reso più efficiente dal punto di vista idrico.
Burberry si è prefissata l’obiettivo di approvvigionarsi di tutto il cotone attraverso la Better Cotton Initiative, non profit impegnata a sostenere pratiche virtuose nella produzione di questa fibra; per la pelle utilizzata ora fa riferimento a concerie dotate di certificazioni ambientali, di tracciabilità e di conformità sociale; dal 2018 ha cominciato a utilizzare l’Econyl, nylon realizzato con reti da pesca riciclate e altri rifiuti; ha sostituito l’isolamento in poliestere in alcune giacche con un materiale fatto di sabbia vulcanica e gusci di cocco di scarto, oltre a integrare più lana riciclata e cashmere nelle sue collezioni.
Altri marchi si sono sbilanciati in promesse impegnative: Adidas si è impegnata a utilizzare il 100% di poliestere riciclato in tutti i prodotti entro il 2024; l’obbiettivo da raggiungere entro il 2030 per H&M è quello di utilizzare il 100% di materiali sostenibili; Patagonia si è data come scadenza addirittura il 2025.

Aldo Premoli

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Aldo Premoli

Aldo Premoli

Milanese di nascita, dopo un lungo periodo trascorso in Sicilia ora risiede a Cernobbio. Lunghi periodi li trascorre a New York, dove lavorano i suoi figli. Tra il 1989 e il 2000 dirige “L’Uomo Vogue”. Nel 2001 fonda Apstudio e…

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