Governare e progettare le città. Intervista all’urbanista Ricky Burdett

Il prof londinese sarà protagonista alla Biennale di Venezia con il gruppo del Council on Urban Initiatives, nato per promuovere città giuste, verdi e sane. Ne abbiamo parlato con lui

L’urbanistica è una scienza, non c’è niente di imprevedibile. Se le cose vengono fatte nel modo giusto, si ottengono risultati certi. Ma è necessario connettere la disciplina con le sue ricadute pratiche”. È assertivo, nel presentare la materia che ha orientato il suo impegno nel corso di una lunga carriera, Ricky Burdett (Londra, 1956), professore di Urban Studies alla London School of Economics, dove dirige il programma LSE Cities and the Urban Age. Tra i suoi impegni, in passato, si ricordano la direzione della X Biennale di Venezia (2006), e la curatela della Global Cities Exhibition alla Tate Modern di Londra. Ma spesso il professore ha messo le sue competenze al servizio di istituzioni pubbliche e amministrazioni cittadine, coinvolto, per esempio, nella progettazione delle Olimpiadi di Londra del 2012. Del 2018 è invece un suo testo (scritto con Philippe Rode) fondamentale per lo studio delle città e delle sfide che dovranno affrontare in futuro: Shaping Cities in an Urban Age.

Governare, progettare ed educare per il futuro delle città. Il simposio a Venezia

A Venezia, giovedì 31 agosto, Burdett sarà sul palco del Teatro Piccolo Arsenale per moderare il simposio Governare, progettare ed educare per il futuro delle città, con Mariana Mazzucato e Lesley Lokko. L’appuntamento fa parte della programmazione di Carnival, iniziativa nata in seno alla Biennale Architettura per approfondirne i temi, con tavole rotonde, proiezioni, talk, performance (il 4 settembre sarà la volta di Costruire i futuri dell’Africa, poi il calendario si protrarrà fino al 26 novembre). E nello specifico introduce il lavoro del Council on Urban Initiatives, piattaforma di ricerca e promozione nata nel 2021 per promuovere “città giuste, verdi e sane”, co-presieduta da Burdett e Mazzucato, con il contributo di sindaci, scienziati sociali, progettisti, educatori: “Non esiste un’entità monolitica che è la città. Dipende da dove ti trovi nel mondo, da problematiche specifiche per ciascuna situazione. Il tema comune è inventare soluzioni: il Council punta all’innovazione, non possiamo utilizzare ciò che è stato fatto 20 anni fa come modello per progettare oggi”, spiega Burdett. Con lui, in vista del simposio, abbiamo parlato di rapporto tra politica e urbanistica, gestione della trasformazione urbana, ostacoli e auspici per il futuro delle città.

Singapore, Punggol New Town (public housing project)
Singapore, Punggol New Town (public housing project). Courtesy Alamy

Intervista a Ricky Burdett

Il Council on Urban Initiatives è nato per promuovere città giuste, verdi e sane. Possiamo spiegare cos’è (cosa dovrebbe essere) oggi una città giusta e sana?
Il punto di partenza è che la realtà delle nostre città è l’opposto di ciò che vogliamo raggiungere. La stragrande maggioranza delle città che stanno crescendo in modo più drammatico di altre non è verde, dal punto di vista sociale avalla le disuguaglianze e mette a rischio la salute di chi le abita. Il Council on Urban Initiatives nasce con l’obiettivo di mettere insieme una serie di attori con ruoli diversi, per lavorare in un’ottica trasversale sulla gestione della città e restituirne una visione tridimensionale. Non abbiamo in tasca un modello di città ideale, non può essere così. Il nostro compito è quello di farci domande e stimolare la ricerca.

Il cambiamento non può prescindere dal sostegno (progettuale ed economico) delle amministrazioni e della politica. Ma probabilmente il compito più difficile spetta a chi progetta: “Imparare a disimparare” sarà proprio il titolo di uno dei panel del simposio. Cosa significa e come si può fare?
Con Mariana Mazzucato rappresentiamo le due facce del problema, la dimensione politica e quella pratica: lei è economista di spessore, io porto il mio background urbanistico. Progettare vuol dire non solo fare strade e piazze, è un modello politico di pensare la città, con un approccio mission oriented. E ragionare di urban design con un approccio politico, per configurare città più sostenibili a tutti i livelli, personalmente mi affascina. Per questo nel nostro gruppo abbiamo profili di primo piano che portano esperienze diverse, da Rahul Mehrotra, professore di architettura di Harvard molto attivo in India, al sociologo Richard Sennett, che si interessa agli aspetti spaziali della città in ottica sociale, ai sindaci del mondo che possono portare la propria esperienza progettuale.

Che obiettivi si prefigge il Council on Urban Initiatives sul lungo periodo?
Vogliamo avere un impatto internazionale sulle politiche di organizzazione delle città. La piattaforma nasce in collaborazione con UN-Habitat (il programma delle Nazioni Unite per gli insediamenti umani, ndR) e vuole fornirgli risposte innovative: le soluzioni proposte dall’Organizzazione, purtroppo, sono molto generiche, noi cerchiamo un approccio mirato. Al contempo ci auguriamo di stimolare il dibattito sui temi dell’abitare, sollecitando l’opinione pubblica. E come urbanista mi interessa anche influenzare il modo in cui si insegna l’urbanistica: come si impara a essere un buon sindaco? All’LSE di Londra stiamo organizzando corsi di Capacity Building per chi amministra le città. Sempre ricordando che spesso i sindaci non hanno la possibilità di realizzare certi programmi, banalmente perché non dispongono delle deleghe necessarie: a New York, per fare un esempio, il sistema dei trasporti non fa capo al sindaco, ma allo Stato, che spesso prende decisioni contrarie agli interessi dei cittadini.

Londra, Ultra Low Emission Zone. Photo Lucy NorthPA
Londra, Ultra Low Emission Zone. Photo Lucy NorthPA

Abitare la città. Ostacoli e soluzioni

C’è poi il tema del senso civico, non secondario nel determinare (od ostacolare) cambiamenti concreti nel modo di convivere e condividere gli spazi. Abbiamo perso la capacità di pensarci come comunità, presi a difendere i nostri interessi e privilegi individuali?
C’è indubbiamente una corresponsabilità da parte di chi vive la città, la prospettiva migliore sarebbe quella di integrare la voce e le richieste dei cittadini, perché si sentano parte del dibattito sul cambiamento. Penso a quanto fatto dalla sindaca di Bogotà Claudia Lòpez o da Ada Colau, alla guida di Barcellona per otto anni: il loro punto di partenza è listening to the people, ma – attenzione – con il coraggio di mettere in atto anche politiche impopolari. Quaranta anni fa si è posta all’attenzione la relazione tra il fumo e il cancro: è stato necessario intervenire con il divieto di fumare negli spazi pubblici. Mentre proprio in queste ore, a Londra, diventa legge un’iniziativa del sindaco Sadiq Khan, che potrebbe costargli la prossima rielezione: si tratta di un progetto per limitare l’utilizzo delle automobili nella cosiddetta “zona estesa” della città, dove si muovono 9 milioni di persone; oltre alla tassa di 15 sterline già in vigore per le auto che entrano in centro, ora tutte le macchine più vecchie e con motore Diesel pagheranno una quota in più per circolare nella zona estesa, che diventerà Ultra Low Emission Zone. Rispetto molto Khan per come ha lavorato negli ultimi anni, è una politica che non porta voti, ma necessaria: le ultime ricerche registrano un aumento esponenziale dei problemi respiratori tra i più giovani.

C’è un’urgenza che ritenete più contingente?
Vogliamo concentrarci su un aspetto fondamentale, incredibilmente trascurato in buona parte del mondo, che è quello dell’housing, l’edilizia sociale. Sono tornato recentemente da Singapore, un Paese che esiste da poco più di mezzo secolo, dove l’80% della popolazione vive in alloggi di edilizia pubblica per una precisa politica abitativa: si è deciso che il diritto alla casa è parte fondamentale della costruzione di un sistema efficiente di amministrazione della collettività. È un modello importante, che dovremmo studiare e cercare di replicare: troppo spesso, invece, un modello politico sull’housing proprio non esiste; si è preferito delegare il problema ai privati. In Europa ha fatto eccezione la Barcellona di Ada Colau, ma penso anche a esempi di vecchia data, tentativi purtroppo lasciati cadere nel vuoto: mi piace citare il bisnonno Ernesto Nathan (sindaco di Roma dal 1907 al 1913, ndR), che pianificando il quartiere Prati immaginò un’urbanistica fondata su una struttura sociale, con servizi, trasporti. Sappiamo che poi le cose a Roma hanno preso un’altra piega.
Il nostro compito, ora, è quello di fornire esempi pragmatici per un approccio integrato e sostenibile sul tema: presto pubblicheremo una ricerca a riguardo, dopo un primo scritto dal titolo The Right to Housing, uscito di recente.

Bogota, Las Terrazas housing upgrading (City Hall Bogota)
Bogota, Plan Terrazas housing upgrading (City Hall Bogota). Courtesy Secretaría Distrital del Hábitat | Hábitat Bogotá

I modelli da guardare in Italia e nel mondo

Rispetto alla pubblicazione di Shaping Cities in an Urban Age (2018) come (se) sta cambiando l’approccio delle città prese in esame? Possiamo individuare aree del mondo che stanno proponendo soluzioni interessanti da seguire?
Londra, e non lo dico perché ci vivo, è una città da guardare: se l’estensione della Ultra Low Emission Zone avrà successo, verrà ripetuta in giro per il mondo. Londra viene identificata nel mondo come modello. Ma anche Parigi negli ultimi dieci anni ha creato situazioni interessanti per la gestione degli spazi pubblici in modo sostenibile.
Ampliando l’orizzonte, guardo con interesse ad Addis Abeba, in Etiopia, che parte da premesse totalmente diverse e sta facendo passaggi incredibili: hanno costruito 300mila abitazioni in 4-5 anni, stanno realizzando infrastrutture e una rete efficiente di trasporti pubblici. Se una città così complessa, che deve scontare anche seri problemi di instabilità sociale e politica a livello nazionale, riesce a crescere bene, può diventare un modello fondamentale: ricordiamo che gran parte dell’urbanizzazione, nei prossimi 20 anni, riguarderà l’Asia e l’Africa.

Veniamo all’Italia. A Napoli è coinvolto nel team per la riqualificazione del Real Albergo dei Poveri, cantiere che partirà sostenuto da una nuova visione politica di uno spazio abbandonato a lungo a se stesso. Come stanno lavorando le città italiane per rinnovarsi?
Rispetto a una decina di anni fa, molte città italiane si sono attivate con un’intenzione che prima non c’era. Napoli è un buon esempio di questo rinnovato atteggiamento, basato sul ricominciare a credere nel futuro della città. Ma penso anche a Milano, con il sindaco Beppe Sala. Quindici anni fa, quando ho curato una Biennale incentrata proprio sulle città, fu difficile per me trovare una città italiana con cui avere un confronto su questi temi, ora non è più così. Al simposio di Venezia interverrà anche Laura Lieto, vicesindaco di Napoli con delega all’urbanistica, che della rigenerazione urbana ha fatto il centro della sua ricerca, ispirandosi agli esempi di Bogotà e Barcellona.

Livia Montagnoli

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