Nove storie sulla tappezzeria. Carl Gustav Jung e Sabina Spielrein

Ultimo appuntamento con il ciclo di interventi di Luigi Prestinenza Puglisi sul tema della tappezzeria, usando il rimando all’architettura come chiave interpretativa. Stavolta tocca a uno dei padri della psicoanalisi, le cui teorie affondano le radici proprio nella disciplina architettonica.

Nel 1904 la diciottenne Sabina Nikolaevna Spielrein fu ricoverata nell’ospedale psichiatrico di Burghölzi, vicino a Zurigo, dove lavorava il trentenne Carl Gustav Jung. Sabina soffriva, tra le altre cose, di isteria con tic e improvvise crisi di riso e di pianto. Aveva un precedente di un ricovero in un sanatorio dove aveva intrapreso una relazione amorosa con un dottore. Jung, in un tempo inspiegabilmente breve, riuscì a guarirla. Come riportato in una lettera di Jung a Sigmund Freud, fu probabilmente il suo primo caso di cura analitica. Tra il 1905 e il 1911 la Spielrein, oramai guarita, frequentò l’università di medicina a Zurigo con ottimi risultati, intraprese studi di psicanalisi individuando per prima la pulsione di morte (Freud più tardi si appropriò dell’idea, citandone la fonte in una nota reticente e ambigua: “una parte notevole di queste speculazioni è stata anticipata da Sabina Spielrein, in un lavoro ricco di contenuto e di idee che purtroppo non mi è del tutto chiaro”), e compose una tesi sul linguaggio di un paziente affetto da schizofrenia, con la supervisione dello stesso Jung, insieme al quale sviluppò una intensa relazione amorosa, forse già iniziata durante l’analisi. Sabina avrebbe voluto anche un figlio che avrebbe chiamato Siegfried e avrebbe unito la stirpe ariana di lui e la ebraica di lei. La moglie di Jung, Emma, accortasi della tresca, fece di tutto per porvi fine, coinvolgendo la madre di Sabina. Ma furono probabilmente le nuove avventure di Carl Gustav con Maria Moltzer e Toni Wolff la vera causa della separazione da Sabina.
La relazione tra la Spielrein e Jung è stata studiata da eminenti psicanalisti quali Aldo Carotenuto e Bruno Bettelheim ed è stata oggetto di ricostruzioni artistiche e cinematografiche, come quella del regista David Cronenberg (A Dangerous Method, 2011).
Il rapporto tra i due amanti coinvolse anche Sigmund Freud, il quale ne venne a conoscenza sia attraverso Jung che la Spielrein. E, come avviene nei rapporti a tre, a essere messo in discussione non è solo il rapporto primario tra analista e paziente, ma soprattutto quello tra padre e figlio che si era instaurato fra i due psicanalisti e che già era entrato in crisi a causa delle idee eterodosse di Jung. Finirà malissimo, con i due che diventano nemici giurati: Freud cercherà di fare terra bruciata attorno a Jung e quest’ultimo non perderà occasione per mettere in luce le pecche dell’approccio pansessuale freudiano.

TAPPEZZERIA E PSICOANALISI

Sulla storia tra Carl Gustav Jung e Sabina Spielrein esistono, come sempre accade, diverse interpretazioni, ma a noi, studiosi di tappezzeria, interessano tre fatti forse irrilevanti, minuti e trascurati.
Il primo è che Sabina Spielrein aveva avuto un’educazione froebeliana, esattamente la stessa che, con i suoi meravigliosi giochi tridimensionali, ha segnato la formazione di Frank Lloyd Wright e Le Corbusier.
Il secondo è che, nel 1921, conclusa da tempo la relazione con Jung e tornata in Russia, cioè nella sua terra natale, la Spielrein fu tra le anime del Detski Dom, un laboratorio psicanalitico per bambini. L’asilo, che ebbe come alunni i figli di esponenti bolscevichi incluso Vasily Stalin figlio di Joseph, stimolava la libertà evitando l’uso della disciplina, ammetteva curiosità ed esplorazioni sessuali, e si caratterizzava per l’estensivo uso del colore bianco. Le fonti citano che bianche erano sia le pareti sia i mobili. Anche se appare strano che le pareti fossero interamente bianche essendo l’asilo ospitato all’interno di un edificio Liberty, variamente decorato, dovuto al genio dell’architetto Fyodor Schechtel. Tuttavia il bianco doveva giocare, quantomeno nei mobili, un ruolo di primo piano tanto che l’asilo è comunemente conosciuto come “The White Nursery”.
Era, infatti, nello spazio immacolato che i bambini avrebbero cominciato a indagare se stessi, trovando quell’equilibrio che la società avrebbe messo a dura prova: la purezza dell’esterno come corrispettivo alla chiarezza della ricerca interiore, come tabula rasa dalla quale partire.
Il terzo è che Jung aveva una attenzione spiccata per l’architettura, il colore e i pattern decorativi. Nella sua autobiografia più volte Jung racconta dei giochi con le costruzioni che lo appassionano da ragazzo e di sogni dove l’architettura è molto più di una cornice. Inoltre, come vedremo, è autore di coloratissimi mandala e pitture murali.
E infatti già nel 1909, quando realizza, con i soldi portati in dote dalla moglie Emma, la propria abitazione a Küsnacht, mostra un insolito talento plastico e coloristico.
A ossessionare Jung è il tema fallico della torre. Ne realizza una all’ingresso, prefigurazione delle due che eleverà a Bollingen a partire dal 1923. E poi a ossessionarlo è il senso dell’introspezione e dell’ombra. Jung rifugge dall’architettura bianca, dalla purezza e dalle trasparenze e punta a costruzioni massicce caratterizzate da poche e spesso minute bucature. Ad alcune delle quali nega l’affaccio esterno, decorandole con vetrate colorate di gusto medioevale. La sensazione è che chi entra nella casa accede in uno spazio sviluppato in profondità e separato dall’esterno. Collegato alla dimensione ctonia degli inferi più che al cielo.

Dal Libro Rosso di Jung

Dal Libro Rosso di Jung

IL LIBRO ROSSO E L’ARCHITETTURA

Gli anni che vanno dal 1913 al 1916 sono per Jung intensi e terribili. Segnano la discesa nell’interiorità della propria psiche. E sono testimoniati dalla redazione del cosiddetto Libro Rosso: un testo mai dato alle stampe in vita (anche se ne esisteva qualche copia consegnata a pochi fidati amici) e pubblicato solo il 7 ottobre del 2009, a quasi cinquant’anni dalla morte, dopo non poche resistenze degli eredi.
Il libro è composto con la tecnica degli amanuensi: in bella grafia, a mano, affiancato da splendide miniature, alcune a forma di mandala. Mostrano un autore particolarmente dotato dal punto di vista artistico, anche se Jung dichiarerà per tutta la vita, forse per non sviare l’attenzione dei suoi esegeti su un campo che non fosse quello dell’analisi della psiche, che a lui l’arte non interessava affatto. Certo è che raramente si sono viste nella storia della grafica rappresentazioni tanto persuasive di un certo tipo di interiorità: il disegno utilizzato come telescopio interiore, secondo la citazione di Coleridge posta come incipit alla biografia dello stesso Jung pubblicata nel 1960: “Esplorò la sua anima come un telescopio. E tutto quanto vi appariva irregolare egli vide e dimostrò essere splendore di costellazioni. E aggiunse alla Coscienza mondi nascosti dentro mondi”.
È con la costruzione della casa a Bollingen del 1923 che Jung si sperimenta come architetto (nella casa a Küsnacht il progetto è del cugino Ernst Fiechter) e a questa attività dedica un intero capitolo della sua autobiografia. È un lavoro che lo impegna per più di trent’anni.
“Dovevo fare una professione di fede in pietra”, dice.
Nel 1922 Jung compra un terreno di fronte al lago di Zurigo, attratto dallo scenario della zona. Pensa subito di costruirvi una dimora di tipo primitivo: una struttura circolare, con un focolare al centro e cuccette lungo le pareti. Si ispira alla capanna africana, vuole rappresentare il mondo che si espande intorno alla forza primordiale del fuoco, “dare la sensazione” – aggiunge – “di essere al riparo, non solo in senso fisico ma anche in quello spirituale”. La costruisce, almeno per il primo metro, con le proprie mani e con l’aiuto di pochi familiari, tra i quali il figlio Franz, che diventerà architetto (assai strano il fatto che anche un figlio di Freud, Ernst, diventerà architetto, quasi a sancire un legame stretto tra costruttori di case ed esploratori di psiche).
Nel 1923 modifica il progetto, che gli sembra rudimentale, e opta per un edificio circolare a due piani, a forma di torre.  Rappresenta l’elemento primordiale femminile, più tardi lo vedrà come simbolo della presenza della moglie.
Nel 1927 aggiunge una costruzione centrale con una dipendenza anch’essa a forma di torre. Quattro anni dopo, nel 1931, la dipendenza è trasformata in una vera torre e vi è ricavata una stanza dove può ritirarsi solo con se stesso. “Avevo in mente ciò che avevo visto nelle case indiane, nelle quali vi è di solito uno spazio… dove coloro che lo desiderano possono ritirarsi per trascorrere un quarto d’ora o mezz’ora in meditazione o facendo esercizi yoga. Nella mia stanza di ritiro sono solo con me stesso. Ne ho sempre la chiave, e nessuno può entraci se non col mio permesso. Col passar degli anni ho decorato le pareti di dipinti, rappresentando tutto ciò che mi ha portato dal mondo alla solitudine, dal presente all’eternità”. Nel corso degli anni decora il suo studio con dipinti che rappresentano tutto ciò che lo ha portato “dal mondo alla solitudine, dal presente all’ eternità. È il cantuccio della riflessione e delle immaginazioni – spesso immaginazioni non gradevoli e pensieri difficili – un luogo di concentrazione spirituale”.
Nel 1935 aggiunge alla costruzione un pezzo di terra recintata, aperto al cielo e alla natura con una loggia volta verso il lago. Si concretizza una struttura a quaterna, i cui quattro corpi di fabbrica simboleggiano il mondo, le direzioni della terra, le stagioni, i cicli cosmici.
Nel 1955, dopo la morte della moglie, amplia il corpo posto al centro tra le due torri che rappresentava il suo io stretto nella tensione degli opposti. Le due torri rispetto alle quali decide di svettare rappresentano infatti la moglie Emma e l’amante Toni Wolff che, dopo la storia con la Spielrein e la Moltzer, diventerà la sua compagna fissa. L’elevazione della costruzione simboleggia la crescita del suo io, “la superiorità della Coscienza” raggiunta con la vecchiaia.
L’ intera costruzione, come un albero, è fondata sul terreno da cui spiritualmente trae nutrimento. A Bollingen, durante lo scavo per le fondazioni della dipendenza, si rinvengono alcuni cadaveri. Jung interpreta il ritrovamento positivamente: la costruzione fondata sulla Terra, “madre antichissima”, diventa luogo di ricongiunzione con la morte, incontro con il passato dell’umanità, spazio dove la storia si annulla.

Casa Jung a Bollingen

Casa Jung a Bollingen

DALLA CASA ALLA COSCIENZA

Il tema della casa è, come accennavamo, ricorrente negli scritti dello psicanalista. In un suo saggio sul “condizionamento terrestre dell’anima” spiega che la struttura della nostra anima rassomiglia a una costruzione “il cui piano superiore è stato costruito recentemente, il primo piano è magari del secolo XVI e a un esame più attento scopriamo che è stato elevato su una torre del II secolo. Nella cantina scopriamo le fondazioni romane, e sotto la cantina una grotta… sino a trovare la fauna glaciale”.
Bollingen, quindi, è più di un semplice simbolo esoterico, è – dirà Jung – la “rappresentazione in pietra dei miei più interni pensieri e del mio sapere”, un’opera importante anche come chiave di lettura delle sue teorie sugli archetipi: l’io, come insieme di conscio e inconscio, trovando fisica rappresentazione nell’architettura, concretizza un mito; ma il mito, dice Jung nel prologo dell’autobiografia, rappresenta la vita con la precisione della scienza. L’architettura, dunque, come scienza del mito.
Marie Louise Von Franz, discepola di Jung e forse anche lei amante, percepisce l’importanza dell’operazione architettonica condotta dal Maestro, ricorda che la torre rassomiglia a quella costruita da Merlino nella foresta di Brocelandia nella saga del Graal, e se ne costruisce una simile non molto distante da Bollingen. La ricerca dell’io, aggiunge, avviene con la rappresentazione del sé.
Ritorniamo per un attimo alle proiezioni dell’anima che Jung inserisce nel Libro Rosso e a Bollingen, in particolare nella stanza dedicata alla meditazione. Nonostante l’innegabile perizia artistica, per Jung, non sono arte. Se lo fossero sarebbero costruzioni arbitrarie frutto della fantasia. Sono invece proiezione pura dell’interiorità, lo strumento attraverso il quale capire sé stessi. È un’operazione certamente diversa da quella della Spielrein, in cui è l’assenza di immagini, il foglio bianco, che stimola l’interiorità proprio perché inibisce ogni possibile influenza esterna. Ecco quindi una serie di segni che non sono né arte né architettura. Che hanno lo statuto della tappezzeria. Ma non sono, ovviamente, tappezzeria se non quella che può apparire con il telescopio attendibile (?) dell’autoanalisi. E ci permettono di chiudere nel dubbio questa prima serie dedicata a un tema, la tappezzeria, che, come vedete, si è rivelato più ambiguo, imprecisato e interessante di quanto avremmo immaginato.  Tra sei mesi, a questo ciclo di 9 scritti conto di affiancare un nuovo ciclo di sette, che tratterà di autori a noi più contemporanei. Sempre che a voi un tema così futile possa ancora interessare.

Luigi Prestinenza Puglisi

Tappezzeria #8
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Tappezzeria #4
Tappezzeria #3
Tappezzeria #2
Tappezzeria #1

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Luigi Prestinenza Puglisi

Luigi Prestinenza Puglisi

Luigi Prestinenza Puglisi (Catania 1956). Critico di architettura. Collabora abitualmente con Edilizia e territorio, The Plan, A10. E’ il direttore scientifico della rivista Compasses (www.compasses.ae) e della rivista on line presS/Tletter. E’ presidente dell’ Associazione Italiana di Architettura e Critica…

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