Nove storie sulla tappezzeria. Louis Sullivan e Frank Lloyd Wright

Ottavo appuntamento con il dialogo fra arte e architettura messo in campo da Luigi Prestinenza Puglisi, usando il concetto di tappezzeria come bussola. Stavolta la parola passa a due numi tutelari della disciplina architettonica, maestro e allievo legati da un rapporto controverso e profondo.

1923: Louis Sullivan si trova solo, senza incarichi professionali, sommerso dai debiti, lui che è stato l’architetto più importante di Chicago. Non potendo costruire, macina a ritmi forzati la propria logorroica autobiografia e disegna diciannove sublimi tavole per A System of Architectural Ornament. Scrive, inoltre, due articoli per The Architectural Record. Il primo per stroncare il progetto neogotico proposto da Hood e Howells per il Chicago Tribune ed elogiare il progetto secondo classificato di Eliel Saarinen. Il secondo per recensire l’Imperial Hotel di Frank Lloyd Wright, inaugurato in quell’anno. L’Imperial Hotel, afferma, è un poema in pietra, una nobile profezia. La prova che la migliore tradizione dell’architettura è ancora viva. I rapporti tra Wright e Sullivan si erano interrotti bruscamente trent’anni prima, nel 1893, quando quest’ultimo, il Lieber Meister, aveva scoperto che il suo disegnatore capo aveva realizzato, infrangendo il contratto di esclusività, una decina di abitazioni per clienti privati. Ponendo fine così a una straordinaria collaborazione professionale e a una amicizia fatta di interminabili discussioni sull’architettura, sulla produzione in serie dei componenti degli edifici e sul senso dell’ornamento. Probabilmente i rapporti tra i due riprendono già nel 1899 quando Wright è coinvolto nell’ALA, L’Architecture League of America, un’organizzazione di giovani professionisti in rotta con l’AIA, l’American Institute of Architects, e che aveva eletto proprio Sullivan a proprio nume tutelare.

DESTINI DIVERGENTI

Con il tempo la fama di Wright cresce, la fortuna di Sullivan declina: nel 1907 è abbandonato dalla moglie Mary Azona Hattabaugh (i due divorziano nel 1916 o forse nel 1917), nel 1908 vende la casa di vacanza a Ocean Spring nella “primeval forest” del Mississippi, nel 1909, per far fronte ai debiti e per aiutare la moglie fuggita con un altro a New York, mette all’asta la libreria, gli oggetti d’arte e numerosi effetti personali, nel 1918 è sfrattato dallo studio all’ultimo piano dell’Auditorium Tower, che aveva condiviso con Adler e nel quale, dopo la separazione dal socio, avvenuta nel 1895, aveva deciso di continuare la sua sempre più ridotta attività professionale. I suoi spazi si restringono – vive in una stanza e lavora su una scrivania nella sede della Chicago Terra Cotta Company che gliela offre gratuitamente – ed è sempre più in preda all’alcool.
Abbiamo traccia di una corrispondenza tra Wright e Sullivan, con intermediario Rudolf Schindler, il quale lavora con Wright oramai domiciliato in Giappone e lo tiene aggiornato sugli affari americani. Nelle lettere, Sullivan si dichiara sempre più a corto di risorse. “Sto vivendo in un inferno” – scrive nel 1917 – “con un futuro sempre più minaccioso”. Nel 1921 scrive a Schindler: “Forse ci sarà pure un futuro, ma adesso non c’è alcun presente”.
Wright, oltre ad aiutarlo economicamente, anche se non con particolare generosità (ma pure lui è costantemente a corto di soldi con una moglie oppiomane da mantenere) non esita a tributargli in pubblico devozione e riconoscimento: è lui l’amato maestro, la sorgente alla quale ha attinto. E, in effetti, l’opera di Wright, dal 1910 e cioè da quando conclude il periodo delle Prarie houses e rientra dalla fuga in Europa, è un continuo fare i conti con Sullivan, con la sua idea. Di cosa?  Di tappezzeria, se vogliamo stare al filo conduttore di questi scritti che state leggendo.

Louis Sullivan, Wainwright Building, St. Louis, Missouri

Louis Sullivan, Wainwright Building, St. Louis, Missouri

SULLIVAN E LA TAPPEZZERIA

Prima però di entrare nell’elaborazione wrightiana, vediamo in che senso si possa parlare di Sullivan stesso come artefice di tappezzerie.
Come tutti gli architetti della sua generazione e di quella successiva, è ossessionato dal problema della macchina che distrugge il senso dell’ornamento, quell’ornamento che ha reso piacevole la grande architettura classica, gotica o romantica che sia. Non si rassegna all’idea di un’architettura funzionale e nuda, ma nello stesso tempo si rende conto che è finita l’epoca dell’artigiano, autore di pezzi unici raffinati e costosi.
Da qui l’ipotesi di una decorazione realizzata attraverso formelle di produzione industriale che si sovrappongono alla struttura dell’edificio, rafforzandone le linee. Se un buon grattacielo è come un albero, saranno le sue decorazioni a spingere questa metafora sino al punto limite in cui l’inorganico tenderà a mostrarsi come organico. Se un edificio è giocato sulle orizzontali e sulle verticali, sarà sempre la decorazione a sottolinearne la logica. L’esterno, insomma, come rivelatore dell’interno.
Osservando attraverso questa ottica gli edifici di Sullivan, vi accorgerete di una continua elaborazione che avviene nel tempo. Nel Wainwright Building a St. Louis le formelle ricoprono interamente l’edificio, realizzando un cornicione che all’angolo allude alle fronde di un albero. Nel Carson Pirie Scott è un basamento in bronzo che sottolinea il rapporto tra l’edificio e la strada. Ma è nelle banche rurali, e cioè nelle ultime opere, che il lavoro diventa sempre più sublime e raffinato. Due parole usate da Sullivan ci ricordano lo sforzo teso a esaltare oltre ogni limite le superfici dell’edificio: “tapestry brics” e “jewel boxes”.
Tappezzeria di mattoni: non sono più le formelle a involucrare l’edificio, determinando una dualità tra struttura e sovrastruttura, ma i colori e le diverse cotture dei mattoni stessi, insieme ornamento e struttura. Il risultato è, appunto, una scatola preziosa, una jewel box. Pura pelle diremmo, utilizzando un termine ricorrente in un’epoca come la nostra sempre più creatrice di tappezzerie urbane.

LA RISPOSTA DI WRIGHT

Non è difficile notare, a questo punto, che l’Imperial Hotel prima e, poi, le case losangeline in formelle di calcestruzzo sono la risposta di Wright allo stesso problema. L’Imperial Hotel è costruito variando all’infinito il montaggio di alcuni elementi standard, un puzzle tridimensionale disegnato da un architetto che ha creatività, tempo e risorse infinite per verificare tutte le permutazioni di minuti giocattoli froebeliani (e difatti anche i pazientissimi giapponesi a un certo punto mettono Wright di fronte all’alternativa: di concludere il lavoro limitandone i costi o di andarsene). Le case giocano sul montaggio di un numero limitato di blocchi in cemento le cui cassaforme possono essere approntate in cantiere con costi contenuti (così le vende Wright, ma poi, come in tutte le sue case, i consuntivi saranno dieci volte i preventivi). E anche in questa ottica è da intendersi l’interesse di Wright per l’architettura Maya e Mesoamericana, dove i blocchi in pietra sono scolpiti e diventano moduli ideali di una costruzione, a suo modo, industrializzata.

Frank Lloyd Wright, Imperial Hotel, Tokyo

Frank Lloyd Wright, Imperial Hotel, Tokyo

IL CONFRONTO

La differenza tra gli esperimenti di Wright e quelli di Sullivan è che per Wright non esiste la pelle, ma l’unità dello spazio. La sua, insomma, è una tappezzeria tridimensionale, o quadridimensionale, se introduciamo il fattore tempo, così come ci ha suggerito Bruno Zevi. Sullivan lo capisce: da qui l’articolo ammirato nei confronti dell’Imperial Hotel scritto per l’Architectural Record. Wright ci racconta che fu lui stesso, oramai conciliato definitivamente con il suo amato maestro, a consegnargli, il giorno prima della sua morte, il 13 aprile 1924, The Autobiography of an Idea e A System of Architectural Ornament, freschi di stampa dopo mille peripezie per essere portati a lui in tempo (ma forse Wright, bugiardo come sempre, posticipa la data di una settimana per rendere più toccante il suo racconto). Sullivan, contento di poter vedere questi ultimi lavori e sentendo avvicinarsi la morte, chiede che i proventi delle sue royalties siano destinati al programma educativo dell’American Institute of Architects per ricordarlo e per riconoscenza all’istituzione che glieli aveva pubblicati. Muore il 14 aprile, durante il sonno. Ha 67 anni. Alle spese dei funerali del grande poeta della tappezzeria provvedono i suoi amici.

Luigi Prestinenza Puglisi

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Luigi Prestinenza Puglisi

Luigi Prestinenza Puglisi

Luigi Prestinenza Puglisi (Catania 1956). Critico di architettura. Collabora abitualmente con Edilizia e territorio, The Plan, A10. E’ il direttore scientifico della rivista Compasses (www.compasses.ae) e della rivista on line presS/Tletter. E’ presidente dell’ Associazione Italiana di Architettura e Critica…

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