Il ruolo della cultura nella rigenerazione urbana

In vista delle risorse derivanti dal PNRR, è bene riflettere sulle strategie da mettere in campo per far sì che la rigenerazione urbana vada di pari passo con quella culturale. L’obiettivo? Ridurre gli sprechi di denaro e valorizzare la componente umana della rigenerazione urbana

Quello della rigenerazione urbana è sicuramente un tema com: sia sotto il profilo tecnico, che sotto il profilo ideologico. Dal punto di vista tecnico, parlare di rigenerazione urbana implica affrontare temi di finanza pubblica, temi di urbanistica, ingegneria e architettura, ma anche temi di organizzazione aziendale e, infine, temi più prettamente umani, con incursioni sociologiche, psicologiche, ecc.
A questo insieme di difficoltà si aggiunge la dimensione politica e ideologica che ormai avvolge in toto la rigenerazione urbana: a essere a favore della rigenerazione urbana sono infatti la Pubblica Amministrazione, le società finanziarie e i fondi di investimento, ma anche i Comitati di Quartiere, le associazioni di cittadini, le Fondazioni e, in generale, la quasi totalità del mondo culturale. Non che manchino critiche alla rigenerazione urbana, per intenderci, ma nella maggior parte dei casi tali critiche esprimono interessi particolari o si concentrano su aspetti prettamente accademici, rimanendo nell’alveo della speculazione intellettuale.
Di rigenerazione urbana se ne parla da tempo, e, da tempo, il tema viene di volta in volta declinato secondo le narrative più efficaci: la rigenerazione infrastrutturale, le smart-cities, le sensing-cities, e via discorrendo.

RIGENERAZIONE URBANA E RICADUTA SOCIALE

Con il susseguirsi delle stagioni, e dei programmi di finanziamento, nel nostro Paese abbiamo assistito a molteplici interventi che sono stati presentati come rigenerazione urbana. Nel tempo ci sono state offerte, come interventi virtuosi capaci di rigenerare il tessuto sociale ed economico del territorio, azioni su fabbriche dismesse, su vuoti urbani, su periferie cittadine, su stazioni dismesse, su interi quartieri. In alcuni casi, va detto, tali interventi hanno davvero abilitato un processo trasformativo importante, ma in molti degli investimenti abbiamo semplicemente assistito all’applicazione di un modello che, in fondo, ha portato pochi vantaggi al tessuto sociale, concentrandosi prettamente sulle dimensioni immobiliari.
Data la grande importanza del tema, e delle concrete potenzialità che questa tipologia di intervento può esprimere, è ovvio che tutti gli attori, siano essi decisori pubblici, imprenditori privati o anche soltanto cittadini, auspichino e perseguano attività di rigenerazione sul proprio territorio, ma è importante comprendere gli errori che sono stati commessi, per fare in modo che possano essere quantomeno affievoliti in futuro.
Riflessione che diviene ancora più importante se si considera che, in questa tipologia di operazioni, le dimensioni intangibili e culturali generano impatti significativi sulla sostenibilità di lungo termine dell’intera operazione.

La Universal Spin di Alessandro Lupi installata a Torún per il Bellaskyway Festival 2015

La Universal Spin di Alessandro Lupi installata a Torún per il Bellaskyway Festival 2015

L’ESEMPIO DEI QUARTIERI DISAGIATI

Vale forse la pena approfondire un po’ meglio questo aspetto, e, per farlo, può essere utile prevedere un caso limite ipotetico, quello di un quartiere disagiato, in cui parte degli immobili sono sfitti.  In questo caso, oltre a rigenerare gli immobili, per avere degli effetti di medio-lungo termine non basta prevedere uno spazio culturale, che sia una biblioteca di quartiere o uno spazio per le associazioni, ma sono necessari investimenti sufficienti a garantire l’effettiva e proattiva gestione di tale spazio culturale nel tempo, soprattutto tenendo in considerazione che, operando in quartiere disagiato, gli sforzi richiesti per conquistare le persone e per creare davvero una comunità saranno di gran lunga più importanti rispetto a quelli necessari in altri contesti.
Se ciò non avviene, si rischiano effetti indesiderati importanti: riqualificare un immobile, infatti, tende a far incrementare il valore dello stesso al termine dei lavori, per poi conoscere una parabola discendente nel tempo; nel frattempo, fare in modo che delle persone si trasferiscano in uno specifico quartiere richiede più tempo: non sarà soltanto l’appartamento a dover convincere una giovane famiglia a trasferirvisi, ma anche i servizi presenti nel quartiere, le scuole, i trasporti, il clima che si respira passeggiandovi la sera.
Queste trasformazioni, tuttavia, richiedono di gran lunga più tempo rispetto a quello necessario a ultimare i lavori di ristrutturazione di uno o più edifici. Da questa consapevolezza nasce il grande ricorso all’annuncio dell’intervento culturale nel quartiere: le persone saranno così disposte ad acquistare o ad affittare gli immobili fino a ieri sfitti in parte per il rapporto qualità/prezzo conveniente, in parte per le aspettative di effettivo cambiamento del quartiere. Se nel tempo, tuttavia, il quartiere non è oggetto di cambiamenti importanti sul lato sociale, culturale e della qualità della vita, i neo-residenti tenderanno a trasferirsi in altri luoghi, lasciando gli appartamenti nuovamente vuoti, e nuovi e vecchi residenti tenderanno a perdere fiducia nei confronti delle istituzioni. Risultato: amministrazioni poco credibili agli occhi dei cittadini, mancato ritorno economico degli investimenti che sono stati necessari per riqualificare il quartiere, quartiere destinato a essere sempre più emarginato, e questo significa mancata opportunità di creazione di posti di lavoro, con incremento dei costi sociali e di spesa corrente.
Così, un’operazione che doveva essere un’opportunità di sviluppo, diviene un costo per la collettività di cui beneficiano soltanto le imprese edili, quando pagate regolarmente.
Si tratta di una dinamica più o meno nota, che non prende le mosse da un’analisi economica, ma dalla concreta esperienza di molti di noi. Ed è una dinamica da cui è fondamentale proteggere il nostro Paese, soprattutto alla vigilia di un PNRR che destina a queste operazioni risorse importanti.

“I processi di rigenerazione culturale, sociale, di place making e di creazione di comunità hanno un ruolo significativo sia dal punto di vista sociale, sia dal punto di vista prettamente economico e immobiliare”.

Il mondo della cultura, in questo fenomeno, dovrebbe essere forse il watchdog per antonomasia, ma sinora la cultura si è lasciata spesso utilizzare in modo fazioso, a volte per intralciare interventi in nome di valori più ideologici che concreti, a volte lasciandosi ammaliare dalla destinazione di fondi, sia da parte di terzi investitori o dallo Stato, sia a fronte di potenziali surplus derivanti da investimenti collaterali, come ad esempio l’acquisto di immobili in quartieri disagiati con l’obiettivo di rivenderli una volta ristrutturati con i soldi pubblici.
Alla vigilia di questo PNRR, e tenendo conto degli importanti investimenti che la Pubblica Amministrazione già destina alla cosiddetta riqualificazione edilizia, che include anche e soprattutto le case popolari, se non può essere la cultura il watchdog, allora lo devono essere gli stessi proprietari immobiliari. La cultura ha tempi di realizzo più ampi, e durante tali tempi di realizzo ha bisogno di investimenti. Tali investimenti dovrebbero essere già previsti all’interno dei piani, perché, a fronte dell’indebitamento del nostro Paese, sarà difficile che nei prossimi anni si confermino le stesse partite di spesa corrente. E, senza la cultura, l’unico vero vantaggio ottenibile sarà, nella maggior parte dei casi, quello di svendere l’immobile appena restaurato, a un prezzo ben più basso di quello che potrebbe valere, per evitare che nel tempo, oltre al mancato realizzo, comporti anche l’incremento dei costi di manutenzione.
Guardando al recente passato, non possono non tornare alla memoria le mode dei fab-lab, del co-housing, del co-working, della realizzazione di centri polifunzionali con canoni di locazione calmierata per industrie culturali e creative, start-up e via discorrendo.
Non che non ci siano casi in cui hanno realmente funzionato. Soltanto che i processi di rigenerazione culturale, sociale, di place making e di creazione di comunità hanno un ruolo significativo sia dal punto di vista sociale, sia dal punto di vista prettamente economico e immobiliare. Un valore così importante non può essere semplicemente demandato all’iniziativa dei singoli. Deve essere parte dell’investimento e del piano di gestione, esattamente come gli interventi di natura strutturale.

Stefano Monti

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Stefano Monti

Stefano Monti

Stefano Monti, partner Monti&Taft, è attivo in Italia e all’estero nelle attività di management, advisoring, sviluppo e posizionamento strategico, creazione di business model, consulenza economica e finanziaria, analisi di impatti economici e creazione di network di investimento. Da più di…

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