Intervista a Elisabetta Diamanti. L’artista dell’incisione

Allieva di Guido Strazza, Elisabetta Diamanti è uno dei capisaldi dell’incisione italiana contemporanea. L'abbiamo intervistata in vista della sua mostra alla Fondazione Il Bisonte per lo studio dell’arte grafica a Firenze

Elisabetta Diamanti (Roma, 1959) appartiene alla generazione ‘adulta’ dell’incisione italiana contemporanea, cresciuta sotto il magistero di Guido Strazza – con un incontro fulminante, nel caso specifico della Diamanti, con l’irrequieta grandezza di Jean-Pierre Velly – e che sta ora condividendo le proprie conoscenze con le nuove leve attraverso un’intensa attività di docenza ed espositiva. A questo proposito, un’ampia rassegna della produzione più recente dell’artista romana è in mostra a Firenze, fino al prossimo 14 gennaio, presso la storica Fondazione Il Bisonte per lo studio dell’arte grafica. Abbiamo parlato con Elisabetta, rintracciando parabole e traiettorie che proseguono ben oltre quelle disegnate dal bulino sulle lastre.

Elisabetta Diamanti, Impermanenza II, 2021, cm 54,5x98,5

Elisabetta Diamanti, Impermanenza II, 2021, cm 54,5×98,5

Come sei giunta alle tecniche incisorie?
Mi è sempre piaciuto disegnare: disegni dove anche il chiaroscuro era segno, un tratto non sfumato. All’incisione mi sono avvicinata sin dai tempi dell’Accademia di Belle Arti, dove ho avuto il privilegio di conoscere questa tecnica affascinante con uno degli artisti incisori più importanti del Novecento, Guido Strazza. Ricordo che in una delle sue prime lezioni ci chiese di portare a far vedere gli “scarabocchi” che facevamo mentre a casa parlavamo al telefono (erano ancora i tempi del telefono fisso: 1978!). Guido voleva analizzare la nostra qualità di segno, i segni elementari: è con queste premesse, seguendo gli insegnamenti di Strazza, che ho iniziato a lavorare con la tecnica dell’acquaforte a una serie di matrici per indagare tutte le sue possibilità – addensamento, rarefazione, segno indotto – fino alla comprensione che nella composizione della lastra tutto aveva un peso, dal bianco assoluto al nero assoluto, passando per tutte le variabili e varianti intermedie dei grigi.

E poi cosa accadde?
Dopo i due anni alla scuola di Guido, la grande opportunità di approfondire ancora il segno inciso è stata la partecipazione ai corsi biennali che si tenevano all’Istituto Nazionale per la Grafica. La Calcografia è stata per me un luogo di ricerca retta da una forte motivazione interiore, dove la mia indagine si è concretizzata in una serie di matrici dello stesso soggetto: un frammento di una stampa del Piranesi, che, decontestualizzato dall’immagine completa, diveniva astratto. Ho rielaborato ed eseguito questo frammento nelle varie tecniche dirette e indirette, fino a riconoscere definitivamente l’incisione come il mezzo più consono al mio racconto creativo.

Lo studio di Elisabetta Diamanti, 2019

Lo studio di Elisabetta Diamanti, 2019

L’INCISIONE SECONDO ELISABETTA DIAMANTI

Qual è il tuo sentimento rispetto alle diverse tecniche incisorie e ai loro processi?
Il fare incisione è attraversare la materia, segnare il proprio cammino attraverso una continua deformazione della matrice. Un lavoro fisico e di conoscenza delle tecniche fruibile solo attraverso la stampa, racchiuso in un foglio di carta che, umido, si adagerà negli interstizi pieni di inchiostro e dopo il passaggio sotto il torchio renderà visibile l’atto creativo: ma con leggerezza. Queste dualità tra metallo e matrice, carta e stampa, presenza e leggerezza, bianco e nero, pieno e vuoto, mi affascinano tantissimo. L’incisione diventa così la traccia del passaggio del presente che diviene memoria, muovendosi tra impermanenza e vita. In effetti, trovo la tecnica dell’incisione parallela alla vita: percorrere, segnare, non poter mai cancellare definitivamente niente.

Le tue opere sono spesso ispirate da elementi tratti dalla realtà percepibile, per poi aprirsi a un’interpretazione per così dire spirituale di tali elementi. Quali sono i passaggi più ricorrenti del tuo processo creativo?
Ormai dal 1997 inizio tutte le mie lastre con la tecnica della cera molle, disegnando o imprimendo passaggi di memorie. Ho un assoluto bisogno di sentire fisicamente la lastra, quasi di modellarla, una cosa che penso provenga da mie esperienze di modellazione ceramica, poi passo agli interventi indiretti che devono creare un tessuto di presenze.
Tutta la mia ricerca si muove nella Natura: insetti, bozzoli, addomi, pistilli, fiori, foglie, il continuo divenire delle stagioni nelle forme e nel colore – e l’uomo che è parte integrante di questa grande unità di segni. Ecco, ritengo che il mio lavoro tragga ispirazione da elementi percepibili, ma nel continuo divenire delle cose trasformo il soggetto con la mia libertà interpretativa. In effetti, niente nel mondo è astratto: definiamo astratto ciò che non riconosciamo, ma sono pur sempre segni del mondo.

E per quanto riguarda i colori?
Quanto ai colori, mi ci sono avvicinata col tempo: oggi il bianco e nero è ancora presente nei miei lavori solo nei formati piccoli, mentre nei grandi formati attuali cerco di creare delle atmosfere naturali dominate dal colore. Inserisco però anche interventi diretti di grafite sulla stampa: così, pur utilizzando una tecnica dove il concetto di riproducibilità è insito in essa, le mie opere risulteranno dei pezzi unici. Del resto, non ricerco la tiratura, ma il continuo divenire che è proprio della vita, inseguo sempre una composizione articolata che abbia un dinamismo di fondo: vorrei che nelle mie incisioni si potesse sentire il vento, l’aria.

– Luca Arnaudo

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Luca Arnaudo

Luca Arnaudo

Luca Arnaudo è nato a Cuneo nel 1974, vive a Roma. Ha curato mostre presso istituzioni pubbliche e gallerie private, in Italia e all'estero; da critico d'arte è molto fedele ad Artribune, da scrittore frequenta forme risolutamente poco commerciali, come…

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