Annamaria Maggi, direttrice e proprietaria della Galleria Fumagalli di Milano, festeggia quest’anno i trent’anni dal suo arrivo nella galleria, che allora si trovava a Bergamo. Era nata nel 1971 da un’idea del padre di Stefano Fumagalli, che aveva iniziato a occuparsene all’inizio degli Anni Novanta. Era un ragazzo intelligente e ambizioso e stava cercando di trasformare quella struttura familiare in una galleria di portata nazionale e internazionale. Progetto che è riuscito benissimo. Ne abbiamo parlato con Annamaria Maggi.

INTERVISTA AD ANNAMARIA MAGGI
Quando sei arrivata tu, la galleria era in via Quarenghi, a Bergamo, e ospitava in quel momento una mostra di Claudio Verna, la prima voluta e pensata dal giovane Stefano, curata da Giovanni Maria Accame.
Ho recensito la mostra sulla rivista Qui Bergamo, con Stefano ci siamo piaciuti e abbiamo passato molto tempo a progettare di lavorare insieme. Nel 1991 sono entrata in società. Ho comunque continuato a scrivere su alcune riviste di settore e spesso scrivevo testi per i cataloghi della galleria. Mi stavo laureando al DAMS di Bologna. Insieme abbiamo iniziato a lavorare con artisti straordinari, da Kounellis a Uncini, da Castellani a Noland, per citarne solo alcuni.
Enrico Castellani, per esempio: come è nato il rapporto con lui?
La prima volta che siamo andati a trovare Castellani a Celleno ci accolse in cucina, in una situazione di quotidianità. Viveva in un bellissimo castello, un po’ diroccato, ma non se la passava benissimo. Ci ha offerto un bicchiere d’acqua, mentre sfamava i suoi numerosi gatti. Era un uomo semplice e introverso, di poche parole, ma consapevole della sua grandezza. Avevo fatto la mia tesi di laurea su di lui e lo conoscevo già, ma gli avevo parlato soltanto per telefono. Ci ha dato fiducia e abbiamo iniziato a lavorare insieme. Lavorava con grande cura e tempi lunghi. Ha realizzato una ventina di opere appositamente per la prima mostra. Negli anni si è creato un rapporto d’affetto e amicizia che è durato a lungo. Volevamo con gli artisti un rapporto diretto.
In seguito la galleria ha cambiato sede, sempre a Bergamo, siamo andati in via Paglia.

GLI ARTISTI E IL MERCATO
Come era il mercato dell’arte quando hai iniziato? Era un mondo senza social, in cui l’utilizzo del computer era agli esordi.
Abbiamo avuto la fortuna di catturare la coda di quell’esperienza vera, personale, che si poteva fare con gli artisti e con i collezionisti. Un’esperienza di crescita comune. I collezionisti frequentavano parecchie gallerie, ma se decidevano di far parte della Galleria Fumagalli, acquistavano quasi esclusivamente da noi. Si facevano consigliare, acquistavano sulla fiducia. Spesso nascevano delle idee, delle mostre, delle collaborazioni. Avevamo tanti collezionisti, tra piccoli, medi e grandi. Quelli più importanti avevano la possibilità di acquistare anche il giorno prima della mostra, con una prelazione rispetto al resto del pubblico. I piccoli collezionisti, che magari pagavano a rate, invece, compravano opere di dimensioni ridotte. Alcuni di essi, rivendendo quanto avevano pagato relativamente poco, sono riusciti a comprare la casa ai figli. Castellani, per esempio, ha fatto, anche se non amava farle, delle tele 50×50 centimetri, che chiamava “opere borsetta”.
E oggi?
Oggi tutto è cambiato. Sono cambiati i galleristi, i collezionisti. I collezionisti non sono più legati a una sola galleria, grazie a Internet si sono aperti a un mercato internazionale, comprano da dieci gallerie diverse. La gente preferisce le aste, dove crede di fare affari, o le televendite. In molti non hanno più la stessa passione che avevano prima, sono animati da pura speculazione, sull’onda di quello che è successo negli Anni Novanta, che non è più ripetibile: nessuno può comprare a 50 e rivendere a 100 dopo pochi mesi. Gli artisti dei quali ci occupavamo hanno costituito la rivoluzione. In più la gente non compra i giovani e io ne propongo parecchi, da Chiara Lecca a Elisabetta Novello, da Filippo Armellin a Mattia Bosco e Peter Welz.

LA GALLERIA FUMAGALLI IERI E OGGI
Stefano Fumagalli è scomparso, quarantenne, nel 2007, in molti lo ricordano con grande stima. A tuo parere qual era la marcia in più di quest’uomo che è stato tuo compagno di vita e di lavoro?
Ha avuto la grande fortuna di trovare le persone giuste al momento giusto, ma soprattutto l’abilità e la bravura di saperle riconoscere. Era un uomo brillante, molto intelligente, molto simpatico.
Lui non aveva una formazione storico-artistica?
No, ma aveva una grande abilità negli affari.
Mi pare che tu abbia un’anima da collezionista, invece.
Sì, è vero. Lui era molto più commerciale. Io l’ho aiutato a diventare un po’ più collezionista, lui viceversa mi ha aiutato a diventare un po’ più commerciale. Sono state entrambe forzature, ma adesso la Galleria Fumagalli ha una grande collezione.
Dal 2007 resti sola alla guida della galleria. Subito dopo inizia una crisi finanziaria globale da cui non siamo usciti davvero. Per non parlare del momento attuale. Giudicando i visibili risultati, ce l’hai fatta.
La scomparsa di Stefano ha lasciato un grande vuoto, ma non ho mai pensato di mollare, anche se tanti non ci credevano e forse qualcuno ci sperava. La crisi, poi, ha bloccato le vendite e non ho più visto alcuni collezionisti. In quegli anni durissimi ho imparato, anche attraverso gli errori, a riconoscere gli amici e a lottare contro i pregiudizi di chi mi avrebbe voluta relegare al ruolo di “vedova inconsolabile”. Ho dovuto e voluto cercare nuovi artisti, nuovi collezionisti, nuovi collaboratori, ho perfino trasferito la galleria a Milano in un nuovo e ‒ a detta non solo mia ‒ bellissimo spazio. È stato un percorso difficile, rischioso, ma anche necessario per riuscire a dare un futuro alla Galleria Fumagalli. Se non avessi compiuto questo ingente sforzo, la galleria si sarebbe trovata su un binario morto per la crisi, per il cambio generazionale di artisti e collezionisti, e soprattutto per la rivoluzione che il mercato dell’arte ha attraversato negli ultimi dieci anni. Ho messo in atto questa trasformazione senza mai rinunciare a quell’identità culturale che, fin dall’inizio, Stefano e io avevamo condiviso, di cui avevamo spesso parlato tra di noi.
‒ Angela Madesani
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