Tricologia vinciana. L’editoriale di Antonio Natali

Anche i musei oggi tendono a promuovere un certo “feticismo” nei confronti delle opere custodite nelle loro sale. E il risultato è un indebolimento della museologia e della conoscenza da parte del pubblico.

Nel 2016, lasciati gli Uffizi, ho raccolto in un libro alcuni testi che avevo scritto nell’ultima quindicina d’anni e che mi parevano un attestato veridico dell’ideologia sottesa alle mie scelte museologiche. Le quali quasi mai erano state in linea con le politiche culturali governative; anzi, n’erano state per lo più in conflitto. Feticci e poesia. Pagine da una stagione agli Uffizi avevo pensato fosse una titolazione pertinente a quella silloge; ma l’editore volle sostituire il binomio Feticci e poesia col secco e icastico (ma non proprio toccato dall’originalità) Il museo.
Mi sono battuto una vita per esprimere e divulgare il concetto che nell’approccio alle opere d’arte tutto faccia perno sulla disposizione culturale che ognuno assume al loro cospetto.
Un esempio: la Gioconda è, quanto a dipinti, il feticcio per antonomasia. E però è – nel contempo – una poesia d’altissimo tenore. Il ritratto non cambia; a cambiare è l’attitudine che s’assume nei suoi confronti. Se si va al Louvre per fare uno scatto o un autoscatto davanti al quadro, senza neppure guardarlo, è un feticcio; e, allo stesso modo, lo sarà per tutti quelli che ci vadano per sbalordire davanti all’“enigma” del suo sorriso. Tutt’altro che un feticcio sarà invece il ritratto vinciano per chi si muova con l’aspirazione a leggerlo come appunto si legge una poesia amata, avendo in animo il desiderio d’osservarne la visione di paese che liricamente slontana oppure la perspicua pittura del volto eburneo oppure la quieta postura del busto che a Firenze affascinò Raffaello. Bisogna però dire che a consolidare la connotazione di feticcio della Gioconda dà certamente un bel contributo il Louvre medesimo con l’allestimento che le ha costruito intorno: una parete da mausoleo babilonese accoglie solo lei (piccola effigie), mentre sulle pareti della sala sono esposti a quadreria una quarantina di capi d’opera del Cinquecento. Non riesce difficile congetturare che la più parte dei visitatori reputi il ritratto di Lisa l’unico quadro davvero importante di quel vano grandioso e per conseguenza releghi il resto al rango d’arredo di contorno. Ovviamente si capisce che la scelta del Louvre si fondi sulle ragioni della sicurezza e sull’aspirazione a concedere al dipinto vinciano la più larga visibilità possibile; ma dev’essere comunque chiaro che tutto questo alimenta il feticismo di chi visita la sala. Non so dire se, pur sempre assolvendo alle stesse necessità, ci fossero alternative. Però, se le pareti della sala fossero state meno ingolfate d’opere e a quelle rimaste si fosse dato risalto maggiore, la loro distanza dalla Gioconda si sarebbe abbreviata; e magari qualcuno, distogliendo un poco da lei gli occhi, avrebbe anche su quelle azzardato uno sguardo.

L’allestimento del Louvre consolida il feticcio della Gioconda

Valgano nondimeno queste parole a ribadire una nozione in sé financo banale (e però – a giudicare dall’andazzo odierno – non so quanto tenuta in considerazione), che vede nella museologia una disciplina vòlta all’educazione e all’affinamento del gusto, invece che piegata all’esigenze economiche. Una museologia, insomma, che favorisca la conoscenza e l’apprezzamento della poesia, erodendo le fondamenta del feticismo. Del quale mi viene di sospettare non si percepiscano i danni; che non coinvolgono soltanto il nostro patrimonio, ma anche e soprattutto la complessione etica e intellettuale del nostro Paese. Il potere dei feticci è stato creato, coltivato e alimentato dall’industria culturale, che n’ha intuita la capacità di produrre danaro in abbondanza. Ma non sono indolori l’uso e l’abuso dei soliti nomi mitici in funzione d’un ritorno economico sicuro, giacché quasi per forza ne vengono la stagnazione delle idee, la sterilità dello spirito e quel conformismo che oggi tutto deprime.
Quando giornali e televisioni nazionali si smuovono per commentare (che poi vuol dire potenziare e promuovere) una ciocca di capelli ascritti al cranio di Leonardo e su quella si vanno a interrogare i presunti o sedicenti esperti del “genio” di Vinci, l’unica immagine che mi viene alla mente è il baratro. Il baratro della cultura. Segnalo, allora, che in una prossima mostra spingerò oltre il carro funebre; e presenterò in una teca di cristallo i peli pubici di Lisa del Giocondo.

Antonio Natali

Articolo pubblicato su Grandi Mostre #17

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Antonio Natali

Antonio Natali

Dal giugno del 2006 al novembre del 2015 è stato direttore della Galleria degli Uffizi, dove ha lavorato dal 1981 al 2016. Nello stesso 2006, in un concorso al Politecnico di Milano, ha ottenuto l’idoneità come professore ordinario di Storia…

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