Didattica museale e pandemia. Parola al Museo Tolomeo di Bologna

La nostra ricognizione sulle strategie didattiche adottate dai musei nell’epoca della pandemia cede la parola a Fabio Fornasari, curatore del Museo Tolomeo di Bologna.

Quale la ricetta per far sì che il museo esca rinnovato da questo anno di pandemia? Questa volta abbiamo interpellato l’architetto Fabio Fornasari, curatore di un museo molto speciale, il Tolomeo di Bologna, e da sempre promotore della percezione multisensoriale e inclusiva degli spazi dedicati all’arte.

Qual è stato il percorso di studi e professionale che  ti ha portato a lavorare in mostre  e musei?
Se faccio quello che faccio non è stato un caso, ma una vera passione che ho scoperto da bambino. Era il 1972. Non avevo ancora compiuto i miei otto anni quando i miei genitori mi hanno portato alla mostra di Henry Moore al Forte del Belvedere. Ero partito con la noia in tasca. Non potevo immaginare che quella gita mi avrebbe lasciato una impronta indelebile. A otto anni il mondo ti viene incontro e sei più disponibile ad accogliere molti più linguaggi di quando sarai adulto. Riconobbi delle sculture che non dovevo guardare ma attraverso le quali potevo guardare. Mi incuriosì molto quella mostra, che solo poi ho scoperto quanto sia stata importante per la città e per l’artista britannico. Non ero ancora pronto per i significati, per il pensiero che le opere nascondevano al mio sguardo ma mi permisero di riconoscere un’operatività che fondeva il paesaggio con le opere, il museo con il suo pubblico. Questo mi divertì molto. Non sono nato in una famiglia di storici dell’arte. Nonostante questo erano curiosi rispetto all’arte e alla musica e sapevano quanto fosse importante per un bambino ricevere questi stimoli. Gli strumenti del pensare e gli strumenti del fare. Gli strumenti non hanno bisogno di istruzione: comunicano con la forma il loro significato. Non hanno bisogno di verbalismo. Con quella mostra fecero centro accendendo in me la sensibilità verso l’arte immersa nel proprio spazio e nel proprio tempo che si organizza come scoperta di racconto.

Firenze, città che ritorna al momento di scegliere la città dove fare l’università.
Sì, poco più di venti anni dopo, lì mi sono iscritto alla facoltà di Architettura. Non avevo l’ambizione di progettare pezzi di città. Volevo lavorare intorno al patrimonio culturale, allo studio e alla valorizzazione attraverso la cultura del progetto. Questo era possibile a Firenze. Quindi ho scelto l’indirizzo storico per apprendere gli strumenti della filologia e della museologia a fianco della museografia.
Sul fronte degli aspetti più architettonici, con gli architetti radicali fiorentini appresi gli aspetti più concettuali dell’arte attraverso Dan Graham, Joseph Kosuth, Marcel Broodthaers e Georges Perec. Appresi che l’architettura, come l’arte, è un modo speciale per pensare.
Dopo la laurea sono stati fondamentali alcuni incontri: con il docente di psicologia dell’arte Alessandro Serra, allievo di Luciano Anceschi al DAMS di Bologna, con il professore di Museologia Fredi Drugman e Bruno Munari.

Ma la tua città è Bologna e qui tu da anni collabori con l’Istituto dei Ciechi “F. Cavazza”; parlaci di questa esperienza.
Al Cavazza sono approdato per un progetto di allestimento e questo mi ha dato la possibilità di lavorare intorno a un pensiero non-visivo dell’arte. Una mostra dove le opere d’arte erano selezionate tra opere concettuali che prescindono da una dimensione visiva. Fredi Drugman ricordo che ribattezzò questo progetto il Museo del Buio, non perché lavorasse in assenza di luce ma perché avrebbe lavorato nell’assenza della visione retinica. Quello che mi interessava in questo progetto era lo statuto della visibilità. La questione era la volontà di ridisegnare lo spazio della percezione, facendo vedere ciò che prima non lo era: non lavorare sul buio ma mostrare a tutte e tutti, non ai soli non vedenti, la possibilità di lavorare sulla dimensione non visiva. Gli artisti concettuali ci mettono in guardia nella relazione che si genera tra il visibile e il dicibile, tra il ciò che si fa e il ciò che si può fare. Questo è l’insegnamento più importante del quale fare tesoro ed è anche il ruolo politico che dovrebbe avere qualsiasi museo oggi: permettere un cambio della visione, aiutarci a cambiare sguardo!

Museo Tolomeo, Wunderkammer, Bologna. Photo © Lorenzo Burlando

Museo Tolomeo, Wunderkammer, Bologna. Photo © Lorenzo Burlando

L’AVVIO DEL MUSEO TOLOMEO A BOLOGNA

Da lì all’ideazione del Museo Tolomeo il passo è stato breve?
Il Tolomeo è il giro di boa, non è un caso se ha aperto le sue porte nel gennaio 2015, come evento di Art City, la versione OFF dell’Arte Fiera di Bologna. Lo abbiamo presentato richiamando due precisi concetti che vengono dalla storia del museo e dall’arte contemporanea. Il primo concetto è la Wunderkammer, del quale darò per scontato in quanto è all’origine della stessa idea di museo. Il secondo concetto è ambiente o installation art, uno spazio immersivo che nel suo insieme è opera, è pensata come opera.

Quale legame esiste fra questi due concetti?
L’opera ambiente e la Wunderkammer in questo senso si richiamano: sono spazi pieni di cose che portano e prendono significato in relazione ali contesto e in relazione a qualcuno che ne attiva il pensiero. Il progetto, nato insieme a Lucilla Boschi, curatrice e responsabile della comunicazione e attualmente anche Coordinatore Commissione Accessibilità museale ICOM Italia, prende il suo nome dall’idea che viviamo una società che, nonostante scientificamente abbia compiuto diverse rivoluzioni scientifiche, pone l’essere umano al centro dell’universo.
Delle rivoluzioni scientifiche qualcosa resta sempre vivo. A noi interessava sottolineare che anche chi non vede è il centro di una descrizione del mondo che usa linguaggi e metodi differenti dagli altri e che conoscerli e adottarli anche per gli altri può essere una risorsa. Questo è anche il modo per comprendere che la centralità della propria maniera di sentire e di farsi una idea del mondo è relativa e che abbiamo bisogno della sensibilità dell’altro per avvicinarci a una comprensione più intera.
Durante il Covid le persone con disabilità sono state le categorie che maggiormente hanno sofferto e che ancora pagano la lontananza dalle aule didattiche. A casa non hanno strumenti, ausili didattici. Per questo motivo abbiamo studiato una serie di tutorial affinché i bambini aiutati dai propri genitori possano costruirsi gli ausili che gli servono per poter studiare.

Cosa vuole dire essere accessibili oggi e come ti sei avvicinato a questo tema?
Partirei dal significato contrario di accessibilità: esclusione. Escludere significa togliere la possibilità di partecipare alla vita civile a chi è nato con – o per qualche motivo si trova a confrontarsi con – una disabilità. All’esclusione che riguarda la dimensione fisica o cognitiva o sensoriale dobbiamo poi aggiungere tutte le forme di esclusione che riguardano la dimensione economica, politica e sociale. La nostra è una società che produce di continuo forme di esclusione. È una società ferocemente competitiva. Ma tanti come noi si sforzano di fare comprendere che l’accessibilità non è una parola che può essere accesa e spenta, ma è e deve essere una cultura di natura sistemica: non funziona a tratti, non può non essere estesa a tutti gli aspetti della società. Compresa la dimensione estetica.
Mi sono avvicinato al tema dell’accessibilità perché ai miei quindici anni ho avuto un trauma cranico che mi ha portato ad avere problemi permanenti di equilibrio, di sordità parziale dell’orecchio destro e un acufene con due tonalità che mi coprono parte dei suoni che ascolto e conseguente difficoltà a collocare i suoni intorno a me. La prima cosa che ho perso è infatti il silenzio. Non è una grave perdita, ma mi ha fatto comprendere il binomio accessibilità/esclusione e mi ha fatto avvicinare al mondo della disabilità e quindi dei non vedenti.

L’IMPORTANZA DELLA COMUNITÀ MUSEALE

Quanto è importante, oggi, la comunità museale, educativa,  artistica  e quanto è importante averne costante cura?
Un museo non può più esistere se non come espressione di una comunità. Non è mai stato differente. È la dimensione della comunità e la pluralità la vera novità. Il dialogo tra la comunità che dirige il museo e le altre comunità che devono imparare a comunicare tra loro. Credo che tutti abbiamo imparato qualcosa con questo Covid in relazione proprio alla dimensione comunitaria. Nella prima fase c’è stata una sensazione di panico, molti musei si sono lanciati in produzioni digitali espandendo la propria identità all’interno di un territorio non sempre noto, non sempre frequentato, senza il know how. In questo secondo lockdown, più morbido del primo, si può vedere invece che i musei stanno proponendo di continuo tavole rotonde dove si parla maggiormente di comunità, specialmente intorno al digitale e intorno alla “fine del museo per come lo abbiamo conosciuto”. Non si vedono opere, non si vedono gallerie virtuali, dialoghi tra le opere ma dialoghi tra le istituzioni.
In fin dei conti, oggi come da sempre, i musei sono fatti dalle persone che li abitano, non dalle tecnologie. Le tecnologie ricalcano i toni delle parole di chi le usa. In questi sei mesi siamo tutti maturati un poco. Abbiamo compreso l’importanza di stare in rete e vicini per immaginare un “poi”. Si sono aggiustati i toni. Ma saremo realmente meno competitivi anche dopo? Accetteremo le influencer e gli influencer nei musei per usare linguaggi differenti o dobbiamo attendere un terzo lockdown?

E infine come, secondo te, l’arte può impattare sulla  percezione personale e collettiva  della nostra vita quotidiana, sempre più a rischio per tanti motivi non solo sanitari?
Forse ho già in parte risposto a questa domanda quando dicevo che abbiamo un compito: rendere visibile alla mente quello che non siamo altrimenti in grado di vedere.
Per poterlo fare io sono partito dai concettuali, Joseph Kosuth, Dan Graham. Sul fronte museale da Marcel Broodthaers, da André Malraux o dal più semplice e letterale Orahn Pamuk. L’arte non ha in sé un messaggio chiuso, politicamente definito, ma ci offre la possibilità di ripensare la realtà per analogia. Per me, per dare risposta a questa domanda, l’arte è uno strumento, un dispositivo di lettura e più la leggo e la studio e più possibilità ho di comprenderla e di usarla per spiegare parte della realtà.
L’arte è energia che cambia il modo di pensare alle cose. Lo fa attraverso segni dipinti, le forme della scultura, lo sdoppiamento nel teatro e con il ritmo del corpo danzante: queste forme ci suggeriscono come le possiamo percepire, come si pongono tra noi nel momento in cui c’è chi espone e chi legge o ascolta. Ci suggeriscono esse stesse come le possiamo usare per poter aggiustare il nostro stare nel mondo in questo momento. Ma siamo noi che le dobbiamo studiare.

‒ Annalisa Trasatti

www.cavazza.it

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Annalisa Trasatti

Annalisa Trasatti

Sono laureata in Beni culturali con indirizzo storico artistico presso l'Università di Macerata con una tesi sul Panorama della didattica museale marchigiana. Scrivo di educazione museale e didattica dell'arte dal 2002. Dopo numerose esperienze di tirocinio presso i principali dipartimenti…

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