L’arte può cambiare il mondo? Vol. I

La Biennale di Venezia è basata sul Capitale di Marx. Si tratta soltanto dell'ultimo esempio di come i curatori siano sempre più attenti alle questioni politico-sociali del nostro tempo. Al contrario, gli artisti delle ultime generazioni sembrano meno inclini all'impegno, dopo la sbornia degli Anni Sessanta e Settanta. Come si spiega questo cambio di prospettiva? Quale apporto può dare l’arte alle problematiche del XXI secolo? E in che modo? Ecco le prime risposte degli ospiti del nostro talk show. Le altre le trovate su Artribune Magazine in uscita a metà settembre.

NEDKO SOLAKOV
Purtroppo l’arte non può fare molto. Anche se ho realizzato molte opere politiche in passato, a partire dalla metà degli Anni Ottanta, quando lavoravo nella Bulgaria socialista, fino alle più recenti prese in giro dei nostri governanti – per esempio nel progetto Knights (and other dreams), presentato nel 2012 a dOCUMENTA 13 –, sono consapevole che questo genere di azione non è in grado di cambiare niente. Tuttavia può trasmettere allo spettatore/lettore/visitatore una speranza, l’idea che ci sia un artista che non è d’accordo con le ingiustizie del mondo e che esprime il suo dissenso attraverso un’opera d’arte. Non è molto, ma almeno per queste due persone – l’artista e colui che guarda il suo lavoro – si crea la bellissima illusione di pensare che viviamo perché lo abbiamo scelto.

Giacomo Zaza - photo Petra Fantozzi

Giacomo Zaza – photo Petra Fantozzi

GIACOMO ZAZA
Nelle nuove generazioni l’impegno persiste attraverso “formule” differenti, all’interno di una sfera estetico-politica lontana dagli assunti utopistici che pretendono di modificare le condizioni della vita collettiva. È obsoleto parlare di “impegno”, semmai si potrebbe parlare di “azione metabolizzatrice” di valori deboli o intensi che siano, seppur sempre mutevoli, nelle prospettive di un’emancipazione del sentire. L’investigazione artistica dovrà oggi ancora di più fare i conti con i contesti complessi della realtà e dei suoi flussi, e sempre meno rinchiudersi nei recinti “specializzati” dell’arte (gallerie, musei, fondazioni, fiere). Dovrà “rivendicare” un territorio del sensibile da “affiancare” agli scenari socio-culturali, politici e religiosi. E mantenere attivi i dispositivi per il confronto e la partecipazione, nonché progettare nuove sfere di esperienza che possano riconfigurare simbolicamente un nuovo “umanesimo”.

Janez Janša

Janez Janša

JANEZ JANŠA
Hmm… non siamo sicuri che leggere il Capitale di Marx al centro di uno spazio della Biennale possa essere interpretato come un segno di attenzione da parte dei curatori nei confronti delle questioni politico-sociali del nostro tempo. Il formato sembra progettato per permettere una fruizione frammentata di un contenuto molto complesso, qualcosa che si possa “consumare” in pillole durante una pausa caffè da Illy. Perché non distribuirlo all’entrata insieme al biglietto? O sotto forma di centinaia di tweet da pubblicare durante l’estate? Probabilmente Das Kapital è anche il libro sbagliato se si vuole instaurare una riflessione sui problemi del nostro tempo. Leggere le teorie economiche di Milton Friedman sarebbe più utile. Il problema è che l’arte “politica” sembra essere diventata l’arte ufficiale del capitalismo neo-liberista. Non possiamo fare a meno di vedere il Capitale come un emblema facilmente riconoscibile di tutto questo.

Aurora Fonda

Aurora Fonda

AURORA FONDA
Immaginiamoci una lettura del Capitale di Marx alla prima Biennale del 1895. Impossibile! Se oggi è pensabile, ciò denota l’esaurimento del suo potenziale rivoluzionario. Leggere il Capitale alla Biennale del 2015 significa che il contenuto del testo è ormai innocuo: la sola ragione per cui può essere declamato ad alta voce ai Giardini. Operazione impensabile alla fine dell’Ottocento, quando il suo potenziale politico-sociale era all’apice. Premesso questo, credo che la funzione critica dell’arte, con il suo potenziale sovversivo ed educativo, non sia diminuita. È una costante antropologica, un impegno che si trasforma nel corso della storia e che non può aumentare o diminuire. In questi ultimi decenni, per esempio, sono numerosi i singoli o i gruppi di artisti che si dedicano all’arte relazionale o partecipativa, dando vita a progetti che da situazioni locali costruiscono tasselli per realizzare concretamente dei cambiamenti politico-sociali ed economici. Gli artisti di ogni epoca devono strappare nuovamente al conformismo la trasmissione delle forme e delle strategie dell’arte.

Helidon Gjergji

Helidon Gjergji

HELIDON GJERGJI
Non riscontro nessuna differenza significativa nel modo in cui i curatori e gli artisti pensano nel XXI secolo. Sono evidenti, invece, le differenze generazionali che riguardano entrambe le categorie. Sia gli artisti che i curatori giovani, perennemente davanti a uno schermo, vivono perlopiù in un mondo bidimensionale, sistematicamente ed esponenzialmente distaccato dalla realtà. E vivere al di là della realtà significa anche essere in grado di editarla – taglia, incolla, salva, photoshoppa, cancella, scatta un selfie – e, alla fine, scegliere di non cliccarci mai. Molti sfruttano concretamente questi nuovi mezzi, altri ne restano intrappolati, ma questo non significa che le generazioni più vecchie di artisti e curatori posseggano qualche genere di superiorità morale in termini di impegno sociale e politico. Piuttosto, significa che i tool a disposizione delle giovani generazioni sono silenziosi, piatti, puliti e lucidi al punto da farli sembrare sempre disimpegnati. Gli artisti non hanno mai rinunciato all’impegno politico e sociale, ma hanno grandi difficoltà a essere compresi e ascoltati correttamente.

Alfredo Cramerotti

Alfredo Cramerotti

ALFREDO CRAMEROTTI
Condivido solo parzialmente l’analisi. Possiamo avere l’impressione che gli artisti delle nuove generazioni siano meno impegnati, così come possiamo avere l’impressione che i teenager di oggi non si preoccupino più di parlare con i loro coetanei se non attraverso uno schermo. Ma non è così. Gli artisti e i curatori più giovani danno molta importanza alla partecipazione, alla condivisione e all’attitudine “learning by doing”. Non mi aspetto più l’artista o il curatore “politico”, ma una figura che inneschi un dialogo, che poi si trasformi in fare, condividere, valutare e cambiare direzione con una serie di altri partecipanti: altri curatori, pubblico e prosumers. È esattamente questo l’approccio del XXI secolo, se vogliamo generalizzare. L’arte ha rilevanza quando mette in discussione se stessa e i suoi meccanismi di produzione, distribuzione e mediazione in relazione ad altri sistemi; non quando li osserva da un punto di vista esterno. È una trappola che le nuove generazioni, incluso il pubblico, hanno ben compreso.

Marco Trulli

Marco Trulli

MARCO TRULLI
Ci sono diversi fattori che hanno contribuito a questo cambio di prospettiva. Uno di questi è proprio l’esigenza delle nuove generazioni di svincolarsi da un’eredità artistica molto forte degli Anni Sessanta e Settanta, scegliendo quindi nuove strade. Nonostante tutto, credo che nel panorama italiano odierno ci siano molte ricerche fortemente radicate in ambito sociale. In genere il mio sguardo è orientato verso gli artisti che problematizzano la propria posizione nella società, interrogandosi sul ruolo dell’arte nel presente, e che immaginano nuove forme di cooperazione e produzione culturale al di fuori di canali e spazi consueti. Gli artisti e i curatori devono agire insieme come “guastatori” del presente, per decriptarlo e innescare processi aperti in dialogo prolifico con la società. L’arte può dare un contributo significativo, aprendo riflessioni di ampio respiro che vadano oltre i recinti prestabiliti, con l’obiettivo di tornare a recitare un ruolo incisivo nell’immaginario pubblico.

Marina Sorbello - photo Lidia Tirri

Marina Sorbello – photo Lidia Tirri

MARINA SORBELLO
Questa domanda mi occupa e mi preoccupa da diversi anni. Enunciare, informare, denunciare, indignarsi ovvero generare indignazione: per anni ho pensato che il ruolo dell’arte potesse essere questo. Ma manca qualcosa, troppo spesso: quest’arte che denuncia tende a essere cerebrale, autocelebrativa, talvolta banalmente illustrativa, ma soprattutto rinchiusa nei parametri di chi ha gli strumenti per leggerla, capirla o possederla. Okwui Enwezor ha detto che se gli Anni Novanta erano l’era delle biennali, adesso è il momento delle fiere d’arte e delle case d’asta, ma dice anche che non ci sono interferenze del mercato nelle sue mostre. Un’arte confinata nel mondo delle fiere, delle biennali e delle istituzioni, quale impatto può avere sullo stato delle cose, sul reale? Non so rispondere. A volte mi mancano il piacere sensuale, la semplicità, la bellezza. A volte ripenso ai concetti di mimesi e catarsi; e ritorniamo alla rabbia e all’indignazione del rivivere, nella finzione dell’arte, le contraddizioni del mondo in cui viviamo. L’arte come esperienza, dunque? E se, oltre a “rivelare” e informare, l’arte aiutasse a “guarire, ricomporre” il presente, “reveal and heal” nelle parole del poeta, attivista e monaco zen Thich Nhat Hanh?

Daphne Dragona

Daphne Dragona

DAPHNE DRAGONA
Penso spesso a questa frase di Matthew Fuller: “Il punto è far succedere le cose: non lamentarti, organizza”. Fuller la scrisse in un intervento sui sistemi autonomi di comunicazione introdotti dagli artisti nell’ultima decade. Se pensiamo al presente, questa urgenza si è fatta più forte e più complessa. Cosa possiamo fare oggi, visto che siamo consapevoli della nostra situazione e di quanto le nostre vite siano divenute trasparenti? Nell’era post-Snowden, non ci possiamo fare illusioni: ci siamo dentro fino al collo e non ci sono possibilità di uscirne. Dobbiamo muoverci oltre questa consapevolezza, verso l’emancipazione. Dobbiamo cercare nuove topologie sociali basate su infrastrutture autonome. È qui che entra in gioco il ruolo politico dell’arte: nella sua capacità di influenzare il cambiamento attraverso iniziative destinate a incidere, abilitando nuove competenze e modalità di comprensione. Ci sono molti artisti oggi che sono impegnati nella costruzione di nuove “cassette degli attrezzi”, nuove piattaforme e infrastrutture, e sono gli artisti che mi interessano di più.

Paco Barragán - photo Andres Olivares Matucana

Paco Barragán – photo Andres Olivares Matucana

PACO BARRAGÁN
Sì, gli artisti sono terribilmente pericolosi e dovrebbero essere arrestati tutti! Lo so, non è un’idea proprio nuova; già Socrate aveva esplulso i poeti dalla sua Repubblica ideale perché avevano idee che lui riteneva pericolose. È ancora così nel XXI secolo? L’arte è ancora in grado di cambiare la società? Gli artisti sono ancora pericolosi? La verità è che gli artisti fanno parte della società, interagiscono con essa e riflettono su come poter immaginare un mondo migliore. E nell’esercizio di questa pratica sfuggono a qualsiasi censura. Sappiamo che le arti visive non sono come il cinema, la pubblicità o la musica pop: hanno un linguaggio criptico e un pubblico limitato. Ma questo significa anche che gli esperimenti artistici difficilmente vengono censurati e gli artisti possono far viaggiare liberamente la propria immaginazione. L’arte è dunque importante, seppur limitata? Sì, perché produce immagini che sono destinate a cambiare la società, direttamente o indirettamente. L’arte produce immagini visive potenti che vengono poi riprese dalla pubblicità, dal cinema, dai movimenti sociali e indirettamente dalla politica. Quindi l’artistico non solo prefigura il politico, ma lo configura.

a cura di Santa Nastro e Valentina Tanni

Articolo pubblicato su Artribune Magazine #25

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Santa Nastro

Santa Nastro

Santa Nastro è nata a Napoli nel 1981. Laureata in Storia dell'Arte presso l'Università di Bologna con una tesi su Francesco Arcangeli, è critico d'arte, giornalista e comunicatore. Attualmente è vicedirettore di Artribune. È Responsabile della Comunicazione di FMAV Fondazione…

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