La Grande Bellezza. Percezioni & proiezioni dell’Italia (II)

E adesso che il film di Paolo Sorrentino ha vinto l’Oscar, sarà forse il caso di osservare più da vicino un oggetto che ha indubbiamente il merito di condensare in maniera molto esplicita e calzante alcuni tic e molte delle retoriche che costellano il presente italiano.

Tuttavia Roma è la mia città. Talvolta posso odiarla,
soprattutto da quando è diventata l’enorme garage
del ceto medio d’Italia. Ma Roma è inconoscibile,
si rivela col tempo e non del tutto. Ha un’estrema riserva
di mistero e ancora qualche oasi.
Ennio Flaiano

“Ma io non volevo essere semplicemente un mondano.
Volevo diventare il re dei mondani.
Io non volevo solo partecipare alle feste.
Volevo avere il potere di farle fallire.”
Jep Gambardella

I. LGB COME OGGETTO GENERAZIONALE
Uno degli aspetti che più salta all’occhio è lo strano ‘scarto’ generazionale che caratterizza La grande bellezza, presente praticamente in tutti i film di Paolo Sorrentino, ma mai in maniera così evidente e marcata come in questo caso. Un regista quarantaquattrenne sceglie di abdicare completamente al suo punto di vista, al punto di vista della propria generazione – a costruirlo, magari, questo punto di vista – adottando completamente quello dei ‘fratelli maggiori’, di coloro che hanno una quindicina d’anni in più, i 50-60enni italiani. I coetanei di Jep e dei suoi amici, che conducono la loro esistenza scioperata e privilegiata su terrazze romane (che nessuno in effetti ha mai visto, almeno in quella foggia). Non ci sono quarantenni nel film; così come l’unico ‘giovane’, trentenne, è il suicida, talmente solo e senza amici da dover essere accompagnato da questi protagonisti al suo stesso funerale.
In effetti, per Sorrentino questi personaggi non sono e non saranno mai e poi mai dei padri, ma sempre e comunque dei fratelli maggiori, appunto: al massimo, dei padri putativi, sostitutivi. Non gente con cui fare i conti, insomma, ma al massimo zii che ti insegnino come si fa bisboccia, come si scriveva un unico romanzo di successo negli anni Settanta, come si beve e che tipo di abito occorre indossare.
Tutto sommato, se ci pensiamo bene, il coro nazionale degli osanna che ha accompagnato LGB fin dalla sua comparsa è stato alimentato sostanzialmente da coetanei di Jep. Anzi, suoi omologhi in tutto e per tutto; suoi riflessi nella realtà al di qua dello schermo, consentanei per classe sociale sistema morale di riferimento approccio generale al mondo. (Il lavoro, giornalismo culturale in salsa gossip, li definisce peraltro sui due lati della narrazione: è il medesimo.)

Gregory Peck e Audrey Hepburn in Vacanze romane (William Wyler 1953)

Gregory Peck e Audrey Hepburn in Vacanze romane (William Wyler 1953)

E dunque, se davvero LGB fosse stato inteso come una critica radicale, aspra, abrasiva, felliniana a un’intera generazione, i suoi membri dovrebbero esserne delusi, desolati, irritati, e non estremamente compiaciuti come invece è avvenuto e sta avvenendo. Può assalirci dunque il sospetto che l’orientamento del film sia sostanzialmente celebrativo, consolatorio. “Siamo sull’orlo della disperazione, e per questo stiamo qui a raccontarci le nostre sciocchezze”: appunto. Sull’orlo della disperazione è molto, molto diverso da dentro la disperazione: LGB in fondo usa la disperazione in maniera decorativa, come un motivo; non ne fa il tema centrale del proprio racconto perché non la conosce, non la esperisce – ma la riproduce, la simula.
Esattamente come fa Jep. (Marcello è autenticamente disperato, sente la vita e la concentrazione sfuggirgli continuamente e irrimediabilmente; è disperato proprio quando meno lo dichiara tuffandosi nella vacuità e nella superficialità: Marcello è una delle figure più pure dell’amarezza italiana.)
Viene in mente a questo proposito ciò che scriveva Indro Montanelli sul Corriere della Sera il 22 gennaio 1960, dopo una proiezione privata de La dolce vita: “Se il censore è intelligente (ma può esserlo, un censore?), lasci che questa sconvolgente “cavalcata” proceda senza intoppi fino al traguardo, che forse Fellini non si proponeva nemmeno, ma che con sicurezza raggiunge: quello di mostrare al pubblico che la dolce vita è una vita opaca e triste, dove più che ricercare il piacere si fugge la disperazione. E inesorabilmente vi si ripiomba. Caso mai, se ne avessi l’autorità, io proporrei che questo film, invece che ai minori di sedici anni come al solito, venisse proibito ai maggiori di sessanta. Perché credo ch’esso metta più in pericolo l’innocenza dei nostri babbi che quella dei nostri figli”.

Toni Servillo ne La grande bellezza (Paolo Sorrentino 2013)

Toni Servillo ne La grande bellezza (Paolo Sorrentino 2013)

II. USO E PERCEZIONE DEL PATRIMONIO
L’uso che LGB fa del patrimonio culturale (di Roma, e dunque dell’Italia) è strettamente connesso a quest’ordine discorsivo. Jep è una figurina che con giacche sgargianti si muove su uno sfondo immobile, inerte. Roma è stranamente spopolata; non ci sono persone per le strade della Capitale – tranne suore prelevate di peso dall’immaginario felliniano – attraversate dallo scrittore-non scrittore. Il re delle feste assomiglia al Vincent Price de L’ultimo uomo sulla terra (Ubaldo Ragona 1964), che si aggira per le strade dell’EUR abitate unicamente da una nuova razza di vampiri. Qui vampiri non ce ne sono, ma fantasmi sì. E spettrale è questa Città su cui scivola il protagonista, senza interagire con essa – con il Colosseo, con il Lungotevere, con i monumenti. La percezione che Jep e gli spettatori hanno di questo tessuto urbano è eminentemente turistica: Roma è una scenografia, un set,  una location, una cartolina con cui non è possibile alcuna vera reciprocità. Lo stesso lemma “la grande bellezza” (che ha fatto già in tempo a diventare proverbiale, sui giornali in tv e nelle strade, un modo di dire: temo che sia solo l’inizio…) suggerisce prepotentemente i concetti di passività, di mistero, di immobilismo – di una sostanziale incomprensione.
Di una contemplazione – che è, però, contemplazione del disastro (senza sapere di esserlo).
E d’altra parte, basta dare un’occhiata rapidissima a due esempi del tipo di retorica che si sta agganciando al film di Sorrentino, prelevati di peso da Twitter: “Come possiamo far emergere #LaGrandeBellezza tra le grandi bruttezze del Paese?” e “Siamo l’Italia. Non dimentichiamolo mai #LaGrandeBellezza” (quest’ultimo è del nostro neo-Presidente del Consiglio). Cioè, lo schema è il seguente: da una parte i nuovi crolli di Pompei, dall’altra un premio che sancisce per l’ennesima volta la rinascita che il cinema italiano attende da circa un decennio e che ogni volta non si materializza. Da una parte il declino la devastazione il fallimento, dall’altra la resurrezione attraverso la rappresentazione. Della “grande bellezza”, appunto. C’è qualcosa che non torna, però: come attivare la ‘ripartenza’ attraverso queste condizioni rappresentative? Come attraversare la crisi e sbucare in una zona nuova rimanendo completamente all’interno della finzione? (Siamo proprio sicuri che LGB apra una nuova fase, e non sia invece l’opera che chiude definitivamente quella precedente?)

Federico Fellini, La dolce vita (1960)

Federico Fellini, La dolce vita (1960)

Il riferimento esplicito, insistito, persino didascalico a La dolce vita oscura  purtroppo tutti gli altri richiami e confronti. Soprattutto quelli con il film che ha saputo costruire l’immagine dello spazio romano e italiano, un’immagine talmente resistente da influenzare qualunque proiezione esterna dei decenni successivi, un film ingiustamente considerato in gran parte ancora oggi un prodotto unicamente commerciale, e che invece è un piccolo gioiello: Vacanze romane (Roman Holiday, 1953) di William Wyler. Anche lì, una figurina si muove per Roma, l’incantevole principessa-ragazzina interpretata da Audrey Hepburn. Nella prima parte del film, la principessa è costretta nel soffocante protocollo regale: questa costrizione si traduce in una limitazione corporea, dei movimenti (il vestito rigido, le coperte pesanti in un letto monumentale e sproporzionato ecc.).
La sua fuga coincide con la liberazione di questo corpo e di questa figura nello spazio di Roma. E l’aspetto più sorprendente è che questa liberazione si traduce visivamente nell’attivazione degli spazi interni ed esterni attraverso i movimenti della protagonista: proprio all’inizio della fuga notturna, il movimento velocissimo della ragazza fa percepire allo spettatore il movimento di un soffitto barocco che era stato fino a quel momento inerte, invisibile; e quando il giornalista – un altro… – Gregory Peck la accompagna ubriaca nella sua camera, il movimento traballante ma meravigliosamente armonioso ci fa avvertire e riconoscere, praticamente per la prima volta, la curva di un’umile scala a chiocciola che è la forma-base di un’infinità di superfici che lampeggiano nel film e nella Roma reale.

[continua…]

Christian Caliandro

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Christian Caliandro

Christian Caliandro

Christian Caliandro (1979), storico dell’arte contemporanea, studioso di storia culturale ed esperto di politiche culturali, insegna storia dell’arte presso l’Accademia di Belle Arti di Firenze. È membro del comitato scientifico di Symbola Fondazione per le Qualità italiane. Ha pubblicato “La…

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