Intervista con Macao. La torre (di babele) dell’arte

Riflessioni a margine delle nuove occupazioni in difesa della cultura. Centri sociali, vecchie comuni o detonatori di energie politiche? Dopo Roma, Napoli, Catania e Palermo, anche Milano punta sul metodo della riappropriazione collettiva. Due piani della Torre Galfa, grattacielo abbandonato, accolgono i Lavoratori dell’Arte. Gente che arriva da tutte le aree artistiche. Illegalmente uniti, per riprendersi zone di libertà creativa, da dove cominciare a riprogettare il futuro. Li abbiamo intervistati.

Di casi isolati non si può più parlare. I miracoli sono rari e invisibili ai più. Ma quando uno stesso miracolo accade una seconda, una terza, una quarta volta, con intervalli di tempo minimi, allora siamo di fronte a qualcosa d’altro: il sorgere di un sistema, forse;  un’alterazione significativa dello status quo, sicuramente.
Il fenomeno delle occupazioni di teatri, musei, cinema, spazi per la cultura condannati al degrado e a una impietosa dimenticanza, è ormai decollato, dopo che a dare il solenne “là”, un anno or sono, fu quel Teatro Valle coraggioso e volitivo, apripista di un’avventura esemplare di cui si continuano a raccogliere i frutti.
Da quel 14 giugno del 2011 qualcosa ha cominciato a muoversi lungo lo stivale sonnecchiante, da troppo tempo assuefatto ai grigi malcostumi di una politica sorda, inadeguata. Fu come se si fosse spalancata una diga, se una corrente di energia avesse preso a scorrere, con ritmi alternati. Qui impetuosa, lì più timida, qui accelerata, lì a singhiozzi. Ma sempre vivissima. A Roma il Valle e il Cinema Palazzo, il Teatro Coppola a Catania, l’Asilo della Creatività e della Conoscenza a Napoli, il Teatro Garibaldi a Palermo.

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Gli spazi abbandonati della Torre Galfa

E adesso anche Macao, centro per le arti contemporanee inaugurato lo scorso 5 maggio nell’abbandonata Torre Galfa, nel cuore di Milano. Anch’essa occupata e liberata, quale simbolo della cattiva gestione dei beni comuni e del sistema cultura. Nuova, babelica casa dei lavoratori di tutte le arti.
Se è però comprensibile che il centro-sud – arenato nell’immobilismo economico e culturale di sempre – possa covare un forte spirito rivendicativo, più difficile da valutare è un’operazione esplosa nel cuore della Milano contemporanea, città a cui non mancano occasioni, eventi, spazi, da cui non è assente il dibattito, in cui convivono mainstream e undergorund. Certo, una forma di implosione si registra anche qui, tra crisi economica e autoreferenzialità di un circuito spesso troppo borghese e modaiolo. Ed eccole, infatti, le criticità evidenziateci dagli occupanti di Macao: “Non chiediamoci se esistono spazi a sufficienza per l’arte e la cultura a Milano, ma piuttosto quale arte e quale cultura trovino spazio all’interno delle istituzioni milanesi. Pensare l’arte come un’attività separata, fatta da specialisti per  un pubblico da educare in quanto capitale, non significa fare cultura. Prestiamo bene attenzione alle condizioni lavorative imposte oggi agli operatori della culturali: forme di esternalizzazione di lavoro non retribuito, costrizione all’interno di strutture gerarchiche, ma anche alienazione e isolamento, sfiducia nel futuro, depotenziamento della vita”.

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La folla davanti Macao

Insomma, una grande spinta etica e utopica, alla base dell’avventura Macao. Una lotta per un ideale, innanzitutto. L’esistente non ci soddisfa? E allora inventiamoci l’isola che non c’è. “La classica dicotomia fra pubblico e privato”, continuano, “non ha alcuna capacità di risoluzione. Dovevamo creare una terza via, una possibilità che prima non fosse contemplata. E se migliaia di persone hanno aderito, evidentemente le aspettative dei lavoratori dell’arte non erano soddisfatte da quanto c’era già”.
Da oltre un anno preparavano l’azione, i Lavoratori dell’Arte. Una lunga gestazione, condotta dai reali protagonisti della vita culturale cittadina: “Siamo la forza lavoro delle economie più importanti sul territorio: arte, cultura, design e spettacolo. Chiamiamole le ‘economie dell’evento’. E chi le vive e le attraversa siamo noi: artisti, curatori, critici, guardie di sala, grafici, editor, performer, giornalisti, insegnanti, ricercatori, studenti, ma prima di tutto lavoratori”. E vanno avanti, i Macao worker, geniali e accuratissimi nella comunicazione, energici nell’organizzazione. Il palinsesto di mostre, concerti, laboratori, spettacoli, è partito. E le proposte fioccano. Tutti vogliono esserci, tutti vogliono contribuire, esibirsi, proporre. Ma non è ancora chiaro con quali modalità sarà gestita la programmazione. In altri termini: c’è un gruppo che si insedia e che decide, oppure Macao è aperto a tutti, come libera piazza di una libera comunità?
Così rispondono: “Stiamo lavorando per ricostruire e riprogettare. L’idea è di non avere nessuna selezione o direzione artistica, ma di discutere insieme di quanto ogni progetto possa implementare lo spazio e interagire con altri progetti. Macao è il luogo in cui abbiamo la possibilità di guardarci in faccia e ascoltare i nostri bisogni, prendere decisioni per quello che ci riguarda, lavorare insieme nella forma che più ci rispetta”.

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Che cos’è la vita senza Macao? Campagna di comunicazione

Un problema, questo, comune a tutti gli spazi presidiati. Perché il rischio è di cadere nella vecchia logica delle occupazioni anni Novanta, quando un collettivo si installava dentro un sito abbandonato facendone recinto comunitario, “centro sociale”, nel migliore dei casi producendo eventi e attività. Un gesto dell’anti-sistema contro il sistema, un azione “versus” e non “pro”, l’affermazione di uno spazio di divergenza e di resistenza all’interno della macchina statale. E il rischio è, più banalmente, che il presidio riveli finalità esclusive e non inclusive: un gruppo di artisti apre un posto – abusivamente – e si prende laboratori, atelier, palcoscenici, sale prove. Spazi per lavorare, insomma.
Ma il messaggio politico di queste occupazioni targate anni Dieci, è – o dovrebbe essere – un altro. Occupazioni con una forte vocazione culturale e una spinta al rinnovamento sociale. Occupazioni che servano da exempla, pur nella loro concretezza radicale: qui c’è in gioco molto di più di quattro mura e un palco. Qui l’unico senso possibile, che giustifica la condizione di illegalità, sta nell’impulso alla rottura, nell’utopico progetto di ricolonizzazione dell’immaginario collettivo. Portare a galla falle e contraddizioni del sistema, per suggerire altri modelli, per rilevare direzioni invisibili, per ripartire proprio dal vuoto politico, coltivando fertili praterie che non somiglino più a deserti. E allora, tra nuovi sentieri semantici, bisognerebbe accostare la parola “responsabilità” alla parola “potere”, connettendole poi alla parola “desiderio”. Qualcosa che profuma di idealismo sessantottino, forse. Ma ancora una volta le differenze col passato saltano all’occhio, figlie di una emergenza storica specifica.

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La Torre Galfa, a Milano, in zona Garibaldi

Nel tempo della crisi, nel tempo tragico che segna – tangibilmente, ferocemente – il crollo di un modello economico-politico-morale, col conseguente passaggio verso un non identificato altro, questi “strappi” esistono nell’ottica propositiva di una rifondazione. Lavorare per una cultura che sia foriera di sviluppo, studiare formule di gestione ad hoc (come nel caso dello statuto della Fondazione Teatro Valle Bene Comune, scritto dagli occupanti con l’aiuto di giuristi ed esperti), sedersi al tavolo comune della protesta non solo per protestare, ma per tracciare percorsi luminosi e meno fragili di ieri. Non più un “contro” ma un “per”.
La politica e le amministrazioni? Nessuna negoziazione preventiva, a tutela della forza dirompente del presidio. Ma nemmeno le barricate. L’obiettivo vero dovrebbe essere la politica e la sua incidenza sulle questioni culturali e comunitarie. In altre parole: riprendersi la politica, tornare a esserne protagonisti e non più spettatori lamentosi.
Perché l’ipotesi di un presidio perenne non farebbe, in realtà, che deresponsabilizzare le amministrazioni, chiamate – per l’appunto – ad amministrare il bene pubblico, a proteggere la bellezza, a promuovere le economie dell’ingegno, a mettere a frutto il vero petrolio sociale del Paese.

Su questo aspetto i lavoratori di Macao sono categorici: “L’emergere di un bisogno di autogoverno è ormai stato accertato a un livello molto diffuso. Non cerchiamo mediazioni con le forme della rappresentanza politica. Vogliamo occuparci di ciò che più ci riguarda: i nostri tempi, i nostri spazi, i nostri corpi e il nostro futuro. Alle amministrazioni chiediamo che le nostre intelligenze vengano rispettate”. Certo è che quando parlano di “arte come sperimentazione politica e sociale”, è palese l’obiettivo di autoaffermazione, ma con un sottotesto: per modificare la macchina operativa e la visione diffusa delle cose, occorre mettere alle strette chi manovra le sorti delle città dalle stanze dei bottoni.
Non siamo entrati in un teatro per occuparlo”, aggiungono, ”ma in uno degli edifici simbolo della rovina finanziaria”. Forte il messaggio: sulle macerie della mala politica e della più sporca finanza, ricostruire un paesaggio rigoglioso, un modello virtuoso. “Ci sembra che la riappropriazione di tutto quello che la crisi e la sua austerità ci stanno sottraendo sia l’unica via che abbia ancora un senso. A differenza dei mercati e dei governi, noi stiamo lavorando perché la vita si espanda, in un assalto al cielo”.
Germinazioni vitali, come rimedio contro il morire a catena di luoghi, idee, talenti, speranze. E il futuro, per i lavoratori di Macao, ha il profilo di un’immensa torre che buca il firmamento. Da quella vertiginosa quota, ne sono certi, “si potrebbe pensare anche di volare”.

Helga Marsala

www.wmacao.tumblr.com

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Helga Marsala

Helga Marsala

Helga Marsala è critica d’arte, giornalista, editorialista culturale e curatrice. Ha innsegnato all’Accademia di Belle Arti di Palermo e di Roma (dove è stata anche responsabile dell’ufficio comunicazione). Collaboratrice da vent’anni anni di testate nazionali di settore, ha lavorato a…

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