Via da Faenza. Il festival dell’arte Contemporanea è sul mercato

Un’altra storia italiana. Una manifestazione culturale costretta a migrare verso altri lidi. Altro che uscire dalla crisi grazie alla cultura, qui si smonta quel poco che di buono c’è. Succede alla Biennale di Venezia, succede al festival dell’arte Contemporanea: la città di Faenza non è più interessata o, semplicemente, non ha più il becco di un quattrino per tenerselo. Ora il festival è in cerca di casa; l’Italia invece continua ad essere in cerca di una identità che vada oltre un declino che corrode dentro. Qui, dalla viva voce dello staff del festival.

Un’altra storia come tante, forse. Il festival dell’arte Contemporanea che tutti conoscevano come il “festival di Faenza” non si svolgerà più in questa città.  Malgrado nel corso degli ultimi quattro anni e delle sue quattro edizioni abbia sfatato il mito che Faenza è (solo) la città della ceramica.  Malgrado abbia costruito una rete di 500 giovani che, all’interno del progetto Cyou, hanno arricchito il festival e abbia portato quasi 500 speaker internazionali a confrontarsi in un dibattito aperto al pubblico e si sia posizionato come il primo appuntamento al mondo dedicato all’arte e alla cultura contemporanea. Okwui Enwezor, Hans Ulrich Obrist, Doris Salcedo, Daniel Buren, Ryan Gander, Iwona Blazwick, Adam Budak, Hedwig Fijen, Achille Bonito Oliva, Germano Celant: per elencarli tutti non basterebbe lo spazio di questo articolo.
Ma veniamo alla cronaca. Perché il festival è stato costretto a cambiare casa? Non certo per sua volontà. Come abbiamo sempre detto, Faenza era il luogo ideale: dimensioni ridotte, qualità della vita alta, una creatività fisiologica determinata dall’essere romagnoli e da una storia che affonda le sue radici nell’amore e nell’eccellenza nella tecnica ceramica. A Faenza, alla Bottega Gatti, sono passati i futuristi, ancora oggi producono le loro opere artisti come Luigi Ontani e i coniugi Kabakov. A Faenza è vissuto Carlo Zauli, una figura di straordinario interesse nel panorama della scultura internazionale. Il suo museo, nel centro della città, è oggi un vivacissimo motore di memoria culturale e situazioni creative.

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Carlo Zauli - Terra che rivive - veduta della mostra presso gli ex Magazzini del Sale, Cervia 2011

A Faenza c’è il MIC, il più importante museo di ceramica al mondo, con una collezione da capogiro e opere raffinatissime. Insomma, non c’era proprio da lamentarsi. Poi succede che la politica decide che il festival non si fa più, che “non esistono le condizioni territoriali per realizzare la prossima edizione”. Tecnicamente, non ci sono i soldi. Ma come voi lettori – che non siete nati ieri – ben sapete, in Italia i soldi ci sono, dove c’è volontà politica.  E se si vuole credere in un progetto, ci sono mille modi per sostenerlo, non solo l’impegno economico.
Il festival è stato tacciato, nel suo stesso territorio, di tutto: di essere una macchina spendi-soldi pubblici e di avere uno scarso seguito. Ma noi, che siamo sempre stati molto equilibrati nelle nostre comunicazioni esterne, sappiamo che il festival è stato il frutto (peraltro molto economico, paragonato a molte altre iniziative nazionali e internazionali) di un rapporto proficuo tra pubblico e privato, dell’investimento personale della direzione scientifica (Angela Vettese, Carlos Basualdo e Pier Luigi Sacco) e del nostro lavoro.

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Faenza

Ciò che vi stiamo raccontando tuttavia è una storia che sta capitando a molti altri e che ancora una volta sta dimostrando – come dicono Pier Luigi Sacco e Christian Caliandro nel loro Italia Reloaded – che la cultura non è la priorità nel nostro Paese, malgrado sia l’unica exit strategy possibile per una ripartenza con i controfiocchi.
A chi dice che il festival era solo una manifestazione autoreferenziale, rispondiamo in anticipo dicendo che forse in alcuni casi questa autoreferenzialità  (che in fondo è anche un po’ parte integrante del sistema dell’arte contemporanea) si è senz’altro creata. Ma è pur vero che il festival ha offerto a tantissimi studenti l’opportunità di incontrare artisti, curatori, professori universitari internazionali, di ascoltare gratuitamente le loro opinioni (e di formarsene una propria). È stata un’occasione formativa dalla quale abbiamo visto nascere progetti, collaborazioni, professionalità. E crediamo anche che, ogni volta che leggiamo sulla stampa che un appuntamento di caratura culturale e internazionale come questo è costretto a subire una fase di arresto, sia una grave perdita per tutti, una sfida mancata che il nostro Paese non ha saputo raccogliere, un danno per chi chiede un’alternativa reale a velinismi e reality show.

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La presentazione dei libri di Massimo Minini (a sinistra) al Festival dell'arte contemporanea di Faenza - photo Benedetta Gaiani

Detto questo, non ci fermiamo: siamo già in cerca di una nuova casa, di un territorio in grado di raccogliere la sfida del festival. Che non ci ospiti, ma che sia con noi protagonista di questa affascinante progettualità. La direzione scientifica e lo staff di goodwill (Alberto Masacci, Maddalena Bonicelli, Cecilia Conti, Martina Malaisi, Giulia Mocenigo, Santa Nastro) rivolgono il loro più sentito grazie alla Faenza che ha partecipato, sostenuto, contribuito a far nascere il festival e ad accrescere il suo posizionamento e la sua unicità a livello internazionale.

festival dell’arte Contemporanea

www.festivalartecontemporanea.it

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