La visionaria pittura di El Greco in una grande mostra a Milano 

Da pittore di icone a icona della modernità. La parabola, unica e stravagante, dell’inafferrabile El Greco è protagonista di una grande mostra a Palazzo Reale

Dominíkos Thetokópoulos (vero nome di El Greco) nasce nel 1541 a Creta, allora colonia veneziana, e si forma tra i cosiddetti ‘madonneri’: termine relativamente recente per designare artisti di formazione orientale, attivi nella produzione di icone e immagini sacre in uno stile capace di fondere l’antinaturalismo della tradizione bizantina con le nuove esigenze del naturalismo veneziano. Una rivoluzione, perché le icone devono essere, per definizione, antinaturalistiche. Non rappresentazione del divino, ma sua manifestazione, quindi astratte il più possibile, con iconografie prestabilite che rimandano a una dimensione altra, da non confondersi mai con la realtà.  

El Greco, Laocoonte, 1610-1614, ilio su tela, 137 x 172 cm, National Gallery of Art Washington
El Greco, Laocoonte, 1610-1614, ilio su tela, 137 x 172 cm, National Gallery of Art Washington

Le origini della pittura di El Greco 

Questa premessa è da tenere a mente analizzando l’opera di El Greco, che dal suo approdo a Venezia, intorno al 1567, e per tutta la vita, si porta dentro una tensione all’astrazione formale che diventa sua cifra caratteristica. È uno snodo ben rappresentato in apertura della mostra, dove due icone di primo Cinquecento dialogano con il cosiddetto Trittico di Modena, dalla Galleria Estense, un altarolo apribile dipinto su due lati e realizzato probabilmente a Venezia. È il primo tentativo a noi noto del pittore di abbandonare la tradizione di partenza e abbracciare lo stile veneto, procedendo per tentativi di assimilazione. Le forme del manierismo più stremato, le cromie, le ambientazioni riprese dal vivo contesto della pittura lagunare di questi anni, dove tra le scuole locali si innervano contaminazioni virtuose degli artisti stranieri attivi in città. La conquista dello spazio, del tutto alieno al concetto di icona, attraverso incette di incisioni. Nulla di eccezionale, nessun presagio degli sviluppi futuri, se non nella parte posteriore del trittico, nel Monte Sinai cresciuto come un cumulo di lava contro uno di quei cieli allucinati, combusti, che saranno un’altra firma del più riconoscibile El Greco.  

El Greco, San Francesco in meditazione, 1586-1592 ca., olio su tela, 144 x 104 cm, Museo Diocesano de Arte Sacro, Vitoria-Gasteiz

Le tappe della carriera di El Greco in mostra a Milano 

L’evoluzione però avviene, e rapida, se già nel 1570 Domenico può essere presentato a Roma, ad Alessandro Farnese, nientemeno che da Giulio Clovio, il colto miniatore più in vista dell’epoca, come un promettente discepolo di Tiziano che ha fatto uno stupefacente “ritratto da sé stesso”. 
La notizia del discepolato presso Tiziano è da prendere con le pinze. Fa curriculum, e un contatto con la sua bottega, che pur ci sarà stato, si può rivendere così. Del resto basta guardare le opere degli anni successivi per rendersi conto che l’interesse di El Greco è rivolto più a pittori della generazione successiva, le cui sperimentazioni sono in linea con le sue predisposizioni all’estravaganza: i Bassano e, su tutti, Tintoretto. Le atmosfere notturne, gli effetti pirotecnici dell’illuminazione artificiale (si sente la mancanza, in mostra, del Ragazzo che soffia su un tizzone del Museo di Capodimonte a Napoli, un capolavoro in anticipo sui tempi). Lo si vede già nel San Francesco che riceve le stimmate (1570 circa, Bergamo, Accademia Carrara), con il santo pietrificato, quasi monocromo su un paesaggio esaltato dall’apparire del fondo come di rame, che ricorda lo strato di preparazione delle icone bizantine. E poi nei quadri successivi, con l’ingrediente in aggiunta di uno studio appena poco più risentito dell’anatomia umana, le figure che prendono sostanza a seguito del soggiorno romano (almeno fino al 1572), il contatto con la cultura di Michelangelo, che pure il cretese si permette di criticare… Poi il vuoto di 5 anni nella biografia di El Greco, fino all’arrivo nel 1577 a Toledo, dove muore nel 1614.  

El Greco, San Martino e il mendicante, 1597-1599, olio su tela, 194 x 103 cm, National Gallery of Art Washington
El Greco, San Martino e il mendicante, 1597-1599, olio su tela, 194 x 103 cm, National Gallery of Art Washington

La mostra di El Greco a Palazzo Reale 

Tra gli sbalzi cronologici dei quadri esposti in mostra si fatica a seguire la messa a punto dello stile così caratteristico della maturità dell’artista. Manca il confronto con la maniera, a tratti acida e stralunata, dei pittori spagnoli, dei Fernandez de Navarrete, dei Sánchez Coello, il patetismo di Louis De Morales… Manca il tassello fondamentale dell’eleganza aliena di Parmigianino, più amato dell’amato Correggio. Ed ecco anche l’evoluzione nei ritratti, un genere in cui El Greco ha lasciato alcune delle prove più potenti prima e dopo la dipartita per la Spagna.  
Scene sempre più rarefatte, nelle forme e nei colori, fuori dal tempo. Le Madonne e le sante emaciate, dagli occhi grandi e lucidi, afflitte da una malinconia tisica. Composizioni congestionate, dove lo spazio torna a essere un elemento accessorio, tra ridde di corpi allungati e contorti oltre misura e alternanze di colori complementari, come nel Battesimo di Cristo della Fundacion Casa Ducal de Medinaceli di Toledo o nella la Visione di San Giovanni di New York, danza di fantasmi sotto un cielo di tormenta, spazzato di terra e fumo… Uno stile unico che, come ha scritto un commentatore settecentesco, è inimitabile quando riesce bene, pur tra sbalzi di qualità.  
È sempre facile cadere nel tranello di leggere il prima con gli occhi del poi, e fare dei pittori come El Greco, che hanno pagato caro lo scotto dell’agire fuori dagli schemi, dei precursori loro malgrado. Impossibile non guardare alla sua pittura attraverso il filtro delle interpretazioni di Velázquez, di Manet, di Picasso o de Chirico, che l’hanno portato sempre più vicino alla nostra sensibilità contemporanea, trasformando questo antico pittore di icone in un’icona, a sua volta, della modernità. 

Stefano Bruzzese 



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