Attraversare l’America in cinque giorni. L’artista Arianna Carossa racconta l’esperienza
L'artista italiana racconta del viaggio intrapreso con il fotografo Gianni Pipoli e il sound designer Marc Urselli per portare nel deserto il suo corpus di sculture
Il viaggio è iniziato al mattino, quando il sole sfiorava New York e il traffico scorreva lungo le strade non ancora in piena. Io e Gianni Pipoli, il fotografo che aveva scelto di accompagnarmi in questa impresa, ci sedemmo in silenzio nel van che trasportava le sculture destinate al deserto del Nevada, un luogo remoto e sacro, la nostra meta finale. I pezzi, realizzati in collaborazione con Brembo, curato da Luca Bochicchio, erano il frutto di mesi di lavoro e riflessione. Ora erano imballati, pronti per un viaggio attraverso 4.080 miglia di terra, un quarto del globo, dal cuore di Brooklyn alla vastità del deserto. Fin dall’inizio sapevamo che Marc Urselli, sound designer di fama internazionale, ci avrebbe raggiunto a Las Vegas per completare l’installazione delle sculture sonore nel deserto. Marc avrebbe portato il suo suono, creando un incontro tra le mie opere e il paesaggio, unendo la fisicità della scultura alla dimensione sonora del luogo.
Attraversare l’America in cinque giorni non era solo una questione logistica: era una sfida quasi epica per me, simile a quella di Fitzcarraldo che trasportava una nave attraverso la giungla per inseguire un sogno impossibile. Per un artista, portare fisicamente le proprie opere in un luogo specifico, attraversando strade, montagne, pianure e deserti, è un atto quasi iniziatico. Significava rendere concreto il viaggio interiore che aveva dato vita all’opera. Ogni miglio percorso ci avvicinava non solo alla destinazione fisica, ma anche al compimento di un’intuizione artistica, trasformando il processo creativo in una sorta di traversata spirituale.
Il viaggio di Arianna Carossa attraverso l’America
Attraverso il New Jersey e poi la lunghissima Pennsylvania, la nostra prima tappa fu Columbus in Ohio, una città dal nome simbolico, soprattutto per me che sono nata a Genova. Qui, ci fermammo per la prima notte, osservando la città come esploratori che per la prima volta sbarcano in terre sconosciute. Ma non c’era tempo per fermarsi troppo a lungo: la nostra destinazione, era il deserto. Il secondo giorno ci portò in una giornata tersa di nuvole, prima nello stato dell’Indiana, poi in quello dell’Illinois, e finalmente a Columbia nello stato del Missouri, un’altra tappa intermedia, un paesaggio che sembrava riflettere il cuore dell’America, con le sue strade dritte e poi ancora più dritte, incorniciate da campi verdi, sotto un cielo blu ciano che sembrava un mare in su. Mentre guidavo, ascoltando il Barone rampante di Calvino, socchiudendo gli occhi, riuscendo a rompere il confine dell’auto mi sembrava di guidare in cielo. Gianni, con la sua macchina fotografica, si ingegnava per riuscire a catturare frammenti di strada dritta sperando in qualsiasi elemento che riuscisse a rompere la monotonia estetica del nostro sguardo, come se volesse congelare un tempo che già, mi appariva come immobile. La mia sensazione temporale era azzerata. Il nostro van, carico delle sculture, sembrava diventare un’estensione di noi stessi.
Alberto Sordi, Gesù biondo e le vecchie miniere nel viaggio di Arianna Carossa
La terza tappa ci portò a Burlington in Colorado, ma prima il Kansas. Per me il Kansas significa Un americano a Roma, Alberto Sordi fingeva di venire dal Kansasenfatizzandotutte le S, dando un accento di taglio del sud. Una cittadina, Burlington, disorientante, al confine tra il familiare e il selvaggio, tra la civiltà e l’immensità dell’ovest americano. Qui il senso di isolamento cominciava a farsi più palpabile. Ogni miglio ci allontanava sempre di più dalla coinvolgente e rassicurante New York, proiettandoci in un mondo più vasto, aperto e spietato. Il deserto cominciava a farsi sentire come una presenza distante, ma inesorabile. Burlington e le riserve dei Cheyenne, Burlington come la famosa marca di calze e Burlington con i billboard nel nulla con la foto di Gesù biondo.
Il giorno successivo ci siamo diretti ancora a Ovest come i pionieri che cercavano l’oro, oltre Denver. Proprio come i cercatori d’oro dell’800 ci siamo trovati davanti a una vecchia miniera, stretta in verticale tra la montagna e un fiume. Non ci siamo fermati a cercare pepite, ma abbiamo iniziato a scendere e salire, per fermarci poi, su una spianata a oltre duemila metri di altezza chiamata Grand Junction, qui il paesaggio cambiò drasticamente. Le montagne rocciose enormi con la neve si stagliavano con profili netti davanti a noi, il vento secco e il profumo delle conifere portavano con sé una specie di eco arcaico. Ogni curva della strada sembrava un passo in più verso il cuore del nulla. Le sculture, nel retro del van, sembravano respirare con noi. Ma ecco che in questo ancestrale paesaggio montano, davanti a noi, nel vuoto, qualcosa di familiare: un ristorante cinese.
L’arrivo a Las Vegas per le opere di Arianna Carossa
Il giorno successivo arrivammo nell’intenso Stato dello Utah a Cedar. Qui il deserto cominciava davvero a mostrare la sua natura: una distesa infinita di sabbia rossa e rocce scolpite dal vento e dai sogni ma anche incubi dei pionieri. “Sognai talmente forte che mi usci’ il sangue dal naso” la canzone di De André sui nativi continuava a girare nella mia mente. Qui, l’idea del sacro diventava tangibile, l’anacoreta dentro di me sentiva finalmente aria di casa. Il deserto non era solo un luogo, ma un limen, una soglia tra il reale e l’invisibile, tra il mondo umano e quello degli spiriti. Il paesaggio stesso sembrava impregnato di una forza misteriosa e primordiale, forse mistica.
Infine, il quinto giorno ecco, Las Vegas, una città che sembrava essere l’esatto opposto del nostro destino finale. Le luci scintillanti e il caos artificiale contrastavano violentemente con la quiete assoluta e sacrale del deserto che si stendeva oltre i suoi confini. Era come attraversare una soglia tra due mondi: uno pieno e pulsante artificiale, l’altro silenzioso e vuoto. Mi è sempre piaciuta Las Vegas. La trovo così inverosimile, esagerata e decadente, che penso a Baudrillard nel suo libro America in cui raccontando il bisogno americano di rendere visibile tutto anche quello che per natura sarebbe nascosto, sovraesponendo come in vetrina oggetti e persone, trasforma la realtà in oscena. Baudrillard definisce gli americani incinti di loro stessi. Ecco Las Vegas, l’emblema il simbolo di questa intuizione.
Da lì, ci avviammo verso la Valle del Fuoco, la nostra vera meta. Le sculture che avevo creato con i componenti (gli impianti frenanti, gli oggetti…) Brembo erano finalmente arrivate nel luogo per cui erano state concepite. Il deserto, con la sua immensa distesa di sabbia e rocce rosse bruciate e incandescenti come un tizzone di legno dentro la stufa, rappresentava uno spazio limite, un luogo di passaggio e trasformazione. Le opere, ora, non erano più semplici oggetti fisici, ma parte attiva di una relazione con quell’ambiente, con il suo vuoto.
Attraversare un quarto di globo con le proprie creazioni, vedere il paesaggio mutare e sentire il peso del viaggio, significa immergersi in un processo di trasformazione personale e creativa. È come se l’opera stessa si evolvesse durante il viaggio, caricandosi di nuove storie e significati. Ogni miglio, ogni sosta, ogni istante trascorso sulla strada contribuisce a dare forma non solo alle opere, ma anche all’artista stessa. In quel deserto, al tramonto, mentre sistemavamo le sculture nel loro luogo destinato, ho sentito il peso di ogni chilometro percorso. I miei lavori erano finalmente a casa, immersi in un paesaggio che parlava senza emettere suoni in un dialogo fatto con un noi distante e autentico. Un dialogo silenzioso, quello stesso silenzio denso che provi con qualcuno che ami, in quel vuoto il tuo io si dissolve lasciando il posto alla sola relazione. Come Fitzcarraldo che porta la sua nave attraverso la giungla, anch’io avevo la sensazione di aver compiuto un’impresa: portare le mie visioni artistiche dall’altra parte del mondo, attraverso strade e deserti, fino a un luogo dove il tempo sembra finito e tu scopri la mortalità.
Arianna Carossa
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