Dipingere gli effetti della diaspora africana. Intervista ad Amina Toure-Kassim

Classe 1990, la ghanese Amina Toure-K., di stanza in Ohio, dipinge la condizione di chi, come lei, si è allontanata dal Paese di origine. Fra culture lontane e affetti vicini. L’abbiamo intervistata in occasione della sua mostra alla galleria T293 di Roma

Quando sono arrivata negli Stati Uniti è stato molto difficile ambientarmi, mi sentivo un alieno. Ma trovare situazioni come quelle che ho raccontato nei miei dipinti mi ha dato la sensazione di essere a casa”, afferma Amina-Toure Kassim (Accra, 1990; vive a Columbus, Ohio) in occasione della mostra Behind the Scenes; Tales of a Dreamer alla galleria T293 di Roma, la sua prima mostra personale in Europa. L’artista ghanese si è avvicinata all’arte da autodidatta, frequentando con una borsa di studio il Master in Fine Arts alla University of Ohio, dopo aver conseguito la laurea e la specializzazione in Linguistica. Nella primavera 2022 ha esposto il suo lavoro in occasione della mostra-tesi per il MFA, It’s Home, for now., alla Ohio University Art Gallery di Athens. Dipingere, per lei, è un modo per esplorare visivamente la realtà quotidiana con cui si confrontano le diverse comunità della diaspora a cui lei stessa appartiene. “L’uso del colore riflette la mia personalità: vibrazioni che sono legate più al subconscio”, dichiara l’artista.

Amina Kassim, Behind the Scenes; Tales of a Dreamer, installation view (courtesy Courtesy of the artist and T293, photo Daniele Molajoli)

Amina Kassim, Behind the Scenes; Tales of a Dreamer, installation view (courtesy Courtesy of the artist and T293, photo Daniele Molajoli)

INTERVISTA AD AMINA-TOURE KASSIM

La definizione di “narratrice di storie” è associata alla tua pratica.
Mi considero una “storyteller” perché provo a catturare scene e situazioni abbastanza comuni vissute all’interno delle comunità della diaspora. Per me è l’opportunità per raccontare quelle storie che sono lì dietro e il motivo stesso che mi ha portata ad avvicinarmici. Il sentimento della lontananza vissuta dai popoli africani, come viene vissuto il senso di “casa”, il loro modo di entrare in relazione con nuovi spazi ma anche come vengono visti dalla gente di fuori. C’è del buono e del cattivo, ma soprattutto c’è la volontà di mostrare come sono le nostre vite lontano da casa.

In Making Home, A traveler’s dilemma, Mama, where are you? e nelle altre opere in mostra, realizzate tra il 2021 e il 2022, hai dipinto a olio e acrilico scene d’interni in cui le persone ritratte sembrano avere una relazione d’intimità con te. È così?
Tutti i soggetti ritratti sono miei amici e provengono da diverse parti dell’Africa. Io stessa sono del Ghana e mi sono ritrovata in un ambiente universitario, quello dell’Ohio University, che accoglie studenti di diverse nazionalità. Molti di loro sono disconnessi dalla loro cultura e si trovano in nuovi spazi in cui, essenzialmente, cercano un modo per esistere. Nel senso che si confrontano con una nuova cultura, quella americana, e provano faticosamente a entrare in un sistema che è molto diverso da quello in cui ognuno di noi è cresciuto. Per questo, ciascuno cerca di trovare il suo modo per sentirsi a proprio agio in questo nuovo spazio. Per farlo si provano strade diverse. Ci sono ghanesi, nigeriani, persone del Senegal, del Benin e di altre parti dell’Africa, ognuno viene da una cultura diversa, ma quando siamo tutti insieme siamo africani e condividiamo i nostri valori che, nella loro diversità, hanno anche tante similitudini. Inconsciamente ci ritroviamo in questa comunità in cui ci supportiamo l’uno con l’altro perché sappiamo di essere soli, perché le nostre famiglie e i nostri amici sono lontani.

Amina Kassim, Game night, 2022 (photo Daniele Molajoli, courtesy of the artist and T293)

Amina Kassim, Game night, 2022 (photo Daniele Molajoli, courtesy of the artist and T293)

Il modo in cui hai descritto i diversi personaggi, i tratti somatici o gli abiti che indossano, può essere letto anche come una visione metaforica delle diverse “Afriche”? In Occidente c’è la tendenza a considerare l’Africa come un unico grande Paese, non come un immenso continente con popoli appartenenti a culture diverse ognuno con la propria lingua, religione, tradizioni.
Esattamente! Penso che questo sia un punto molto importante. Ricordo che, quando ho iniziato a lavorare a questo progetto, uno dei miei professori mi disse di fare attenzione a non spingere la narrazione nella direzione di un solo Paese africano ma, mettendo insieme individui provenienti da diverse realtà africane, di affrontare il discorso da un punto di vista più ampio. In questi dipinti, infatti, si vedono riflesse diverse culture. In Game night, ad esempio, ci sono delle persone intente a giocare con un gioco tradizionale del Ghana che si chiama oware. La signora che gioca è una mia amica del Gambia, Fatou, mentre impara questo gioco da tavolo, gli altri personaggi sono del Ghana. È una di quelle situazioni in cui c’è la volontà di condividere culture africane che non sono necessariamente familiari a tutti. Nel dipinto For the love of Ataya, invece, in cui vediamo un gruppo di uomini mentre prende il tè, c’è la descrizione di un momento molto comune in Gambia e Senegal, in cui soprattutto gli uomini siedono insieme e chiacchierano a lungo bevendo un tè molto forte chiamato ataya [tè verde cinese, menta e zucchero, N.d.R.]. Pratichiamo questa cultura anche nella mia scuola, ogni volta che ci riuniamo o per un party, anche se alle ragazze non piace molto perché è una bevanda piena di caffeina. È bello perché è un momento di condivisione, d’amore. In questo dipinto, poi, c’è anche un altro livello di condivisione, perché tutti quegli uomini provengono dal Gambia. L’uomo al centro, il più anziano, nel loro paese era l’insegnante e tutti gli altri i suoi studenti. Ma ora che sono negli Stati Uniti non c’è alcuna differenza tra loro. Sono colleghi universitari perché lui stesso sta studiando per il PhD, ma malgrado ciò si percepisce il rispetto con cui viene trattato dalle altre persone.

Amina Kassim, Mama where are you, 2022 (photo Daniele Molajoli, courtesy of the artist and T293)

Amina Kassim, Mama where are you, 2022 (photo Daniele Molajoli, courtesy of the artist and T293)

LA PITTURA DI AMINA-TOURE KASSIM

In Behind the scenes c’è il riferimento alla bandiera a stelle e strisce.
Ho cercato di far confluire tante storie, in cui ci sono dei segni di appartenenza molto tradizionali e specifici legati all’Africa, in uno spazio altrettanto specifico. L’uomo indossa il tipico copricapo maschile nigeriano aso oke hat e un indumento con il tessuto kente su un fondale che è quello della bandiera statunitense. Ma, guardando con attenzione, si vede che la bandiera è fatta con strisce di plastica con il motivo a intreccio delle popolari borse “Ghana Must Go”. Grandi borse che sono diventate il simbolo dell’emigrazione e che ho tagliato a strisce incollandole sulla tela. Negli Anni Sessanta, infatti, molti ghanesi emigrarono in Nigeria alla ricerca di lavoro, ma negli Anni Ottanta oltre duemila di loro furono forzati a lasciare il Paese. Non ci sono documenti. È stata un’operazione politica, forse per rispondere a qualcosa che precedentemente aveva fatto il Ghana alla Nigeria. All’epoca quelle borse diventarono molto popolari, in quanto vennero usate dai ghanesi per portare con sé i loro beni.

Borse che sono “made in China”: questa considerazione introduce anche il tema della globalizzazione a cui ti riferisci nei tuoi dipinti.
Sì, ci sono molti elementi nei miei quadri che si riferiscono a questo processo, dagli Stati Uniti al Ghana alla Nigeria… elementi che provengono da diverse realtà. Lo scenario in sé dà forma a questo senso di globalizzazione con studenti provenienti da diverse parti dell’Africa che condividono le stesse idee.

Amina Kassim, Behind the Scenes; Tales of a Dreamer, installation view (courtesy of the artist and T293, photo Daniele Molajoli)

Amina Kassim, Behind the Scenes; Tales of a Dreamer, installation view (courtesy of the artist and T293, photo Daniele Molajoli)

Nel tuo modo di ritrarre i personaggi e le scene c’è un approccio molto fotografico: la fotografia in sé viene “citata” nell’opera Mama where are you?.
Questa storia mi sta particolarmente a cuore perché volevo cogliere lo stato d’animo del soggetto. Per quanto riguarda la fotografia, il mio lavoro si basa su questa tecnica che mi permette di raccontare storie il più possibile vicine alla realtà. Alcune situazioni sono colte in maniera randomica, altre vengono ricreate in base alle mie esperienze. In Mama where are you? parlo di perdita, non in termini di morte ma di distanza, disconnessione. Quella donna, come tutti, ha lasciato la sua casa per andare in un luogo in cui si sente sola, disconnessa dalla propria cultura: è alla ricerca di una maniera per sopravvivere. Lei è mia cugina Aisha. È sposata e ha un bambino, ma ha sentito la necessità di cambiare qualcosa nella sua vita. Studiare per un master significava avere prospettive di una vita migliore per sé e per la sua famiglia. Le ci sono voluti tre anni per capire che poteva veramente farlo, perché non voleva lasciare suo figlio. È stato molto duro per lei. Le fotografie che ho dipinto sullo sfondo rappresentano proprio quel senso di perdita. Foto della famiglia, del marito con cui è ancora sposata, del figlio, della vita che si è lasciata alle spalle. Suo figlio non fa che chiedere “quando torna mamma?”, “mamma dove sei?”. Se si osserva il suo sguardo, non è chiaro cosa stia pensando. È felice? È triste?

Manuela De Leonardis

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Manuela De Leonardis

Manuela De Leonardis

Manuela De Leonardis (Roma 1966), storica dell’arte, giornalista e curatrice indipendente. Dal 1993 è iscritta all’Ordine dei giornalisti del Lazio e dal 2004 scrive di arti visive per le pagine culturali del manifesto e gli inserti Alias, Alias Domenica, ExtraTerrestre.…

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