Noise e respingente. Il Padiglione Australia di Marco Fusinato alla Biennale di Venezia

Musica e immagini sono il fulcro dell’opera “totale” presentata da Marco Fusinato nel Padiglione Australia alla Biennale di Venezia appena inaugurata. Un intervento che non vuole piacere a tutti i costi

Il Padiglione Australia di quest’anno alla Biennale di Venezia fa un tale casino che si sente da molto lontano – addirittura dagli ultimi padiglioni, quelli che si trovano oltre il canale. Questo edificio che è un blocco nero genera un rumore impossibile da ignorare se ci si trova all’esterno. Ho sentito parecchie persone che dicevano: “Oddio, sono scappat* dopo due secondi!”. Beh, ho pensato, non c’è male come punto di partenza per un’opera d’arte.

Marco Fusinato, DESASTRES, 2022. Padiglione Australia, 59. Esposizione Internazionale d'Arte La Biennale di Venezia

Marco Fusinato, DESASTRES, 2022. Padiglione Australia, 59. Esposizione Internazionale d’Arte La Biennale di Venezia

IL PADIGLIONE AUSTRALIA DI MARCO FUSINATO

L’artista, Marco Fusinato (Melbourne, 1965) è figlio di genitori italiani originari del Veneto ed emigrati in Australia nel 1960: in questa occasione, dunque, è tornato “a casa” rappresentando il Paese in cui i suoi hanno iniziato una nuova vita. Fusinato ha una formazione creativa legata al punk e alla musica sperimentale: l’opera (intitolata DESASTRES e curata da Alexie Glass-Kantor) nelle sue parole “è un progetto noise sperimentale che sincronizza suono e immagine”. L’artista si esibisce – di spalle rispetto al pubblico ‒ ogni giorno alla Biennale durante le ore di apertura, usando “una chitarra elettrica come generatore di segnali in un amplificatore di massa per improvvisare blocchi di rumore, feedback saturato e intensità discordanti che scatenano un diluvio di immagini su una parete autoportante a LED che va dal pavimento al soffitto. Le immagini sono estratte da un flusso di parole che sono state inserite in ricerca libera su diverse piattaforme online”.
Sono entrato due volte nel padiglione, in due giorni distinti, per durate diverse: la prima volta c’era parecchia gente; il secondo giorno quasi nessuno (i Giardini avevano appena aperto). E l’effetto, l’impatto sono stati sottilmente diversi. Questa è un’opera – immersiva – che agisce su più livelli, in più dimensioni e linguaggi (suono/musica, immagini, installazione, performance), eppure c’è sempre qualcosa che sfugge, quando si viene catturati da questo “pantano di immagini sconnesse e disparate generate a caso” da un suono monolitico e sfaccettato e avvolgente.
Questi due elementi, la gigantesca parete a LED e il muro di casse, interagiscono in un modo straniante e ipnotico. La differenza però la fa comprendere come tutto viene improvvisato, e la sequenza visiva e sonora non è mai, non sarà mai uguale a se stessa: “Il suono è improvvisato e le immagini sono randomizzate. L’unità di controllo fornisce milioni di variazioni, così la performance non si ripeterà mai. Ogni volta che il pubblico assiste all’opera, sarà diverso”. L’autore come unità di controllo: molto interessante.

Marco Fusinato, DESASTRES, 2022. Padiglione Australia, 59. Esposizione Internazionale d'Arte La Biennale di Venezia

Marco Fusinato, DESASTRES, 2022. Padiglione Australia, 59. Esposizione Internazionale d’Arte La Biennale di Venezia

IL RAPPORTO TRA FUSINATO E LO SPETTATORE

È per questo che bisogna starci un po’, un bel po’, qui dentro, per capire davvero come è fatto questo lavoro, e il tipo di attitudine che lo informa. Confesso di avere da sempre un debole per questo tipo di musica-nonmusica, per cui questo caos (che in realtà possiede una sua forma, solo che questa forma funziona con regole differenti rispetto a quelle a cui siamo abituati…) mi risulta immediatamente familiare. Eppure, c’è molto di più rispetto a un semplice ascolto accompagnato da visual: nonostante infatti l’idea dell’opera sia nata come esibizione durante concerti o festival insieme al batterista Max Kohane (questa versione non si è ancora realizzata), essa è irriducibilmente qualcos’altro. Di inafferrabile e indefinibile.
Questo qualcos’altro ha forse a che fare con la ricerca di un senso, con il modo e i modi in cui queste immagini in bianco e nero (che l’autore definisce “disturbate”) vivono nella ed emergono dalla sconnessione – una sconnessione che è del mondo, e della sua rappresentazione – e poi vengono violentemente riconnesse e ricombinate, e tutto questo processo istantaneo e, ripeto, improvvisato, casuale, avviene nel nostro cervello: noi siamo riattivati come spettatori/ascoltatori, esposti a un’allucinazione che coinvolge più sensi, e possiamo solo intravedere qualcosa che sta dietro la superficie, la patina, l’immagine.
E, aspetto forse più importante di tutti, questo spettacolo che non è uno spettacolo non fa nulla per piacere, per risultare accattivante o gradevole, ma è anzi volutamente respingente: “C’è questa aspettativa di realizzare un lavoro che ‘piaccia’, l’ho sempre trovata ridicola. Sono cosciente che i miei riferimenti sono abbastanza obliqui, marginali, impopolari. E non mi aspetto che quanto faccio ‘piacerà’, così non rimango mai deluso”.

Christian Caliandro

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Christian Caliandro

Christian Caliandro

Christian Caliandro (1979), storico dell’arte contemporanea, studioso di storia culturale ed esperto di politiche culturali, insegna storia dell’arte presso l’Accademia di Belle Arti di Firenze. È membro del comitato scientifico di Symbola Fondazione per le Qualità italiane. Ha pubblicato “La…

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