La mostra di Sara Basta (Roma, 1979) è un viaggio nella psiche, duro ma necessario. Le sale dell’ex pastificio Cerere ne potenziano la comprensione e fanno vibrare corde personali e collettive. Il cammino verso l’inconscio non s’avverte subito. Al pianterreno una serie fulminante di autoritratti all’acquerello eseguiti a occhi chiusi introduce a un ludico ambiente infantile che accoglie maschere di stoffa assemblate con altri oggetti e tendaggi combinati a creare un nascondiglio: materiale per una performance eseguita sul posto. Ma vecchie foto e scritti autobiografici distolgono dall’effetto gioioso e inducono il visitatore a una maggiore prudenza.

LA MOSTRA DI SARA BASTA A ROMA
Nelle viscere dell’edificio, laddove un tempo lavorava il mulino, il senso tragico della vita, annunciato dalla nascita e prefigurato dalla fine, affiora alla coscienza. Le opere ‒ autoscatti di maternità, stoffe e ricami di famiglia, autoritratti più scialbati, dolci voci ancestrali che risuonano nell’aria ‒ conducono a una dimensione mitica e sofferta e ricompongono l’interezza del percorso espositivo.
Come per altri artisti formatisi tra i due millenni – Sara è nata nel 1979 ‒, ogni esperienza privata può riecheggiare sentimenti comuni e la bella mostra lo testimonia con toccante intensità. Comunque sostenuta dalla tradizione, la Basta sembra muoversi, forse consapevolmente, tra l’Arte Povera, i pupazzi della Calì per Paolo Poli, le maschere larvali di Lecocq e le trame di Maria Lai, in una continuità che incanta, commuove e consola.
‒ Francesca Bottari
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