Ripensare la natura. 40 artisti al Madre di Napoli

Artisti e collettivi provenienti da ventidue Paesi riflettono sul rapporto tra l’uomo e la natura nella mostra allestita presso il museo napoletano

Tutto comincia con l’imperialismo, pattern di dominazione che il genere umano esercita a oltranza su altri uomini (i più poveri, i più fragili, i diversi) sulle altre specie, su altre forme di vita, piante, rocce, microrganismi e qualcuno, nell’era Covid, potrebbe aggiungere alla lista i virus. Partendo da un lavoro dell’antropologa americana Elizabeth Povinelli, The inheritance (2021) ‒ un video di 80 minuti durante il quale la Povinelli racconta la storia della sua famiglia da Corisolo, un villaggio ai piedi delle Alpi in Trentino, fino a Buffalo, New York e la Louisiana ‒, la mostra allestita al Madre di Napoli prosegue nel solco del video, sia nei temi che nello svolgimento. A livello curatoriale si sviluppa come un essay (all’anglosassone) ricco di deviazioni accademiche che, facendo vari giri, riportano a due pensieri chiave. Il primo, che la nostra esistenza segue una logica di antagonismo e quindi separazione tra forte e debole; colonizzatore e colonizzato; sfruttatore e sfruttato; padrone ed emigrato; potenze capitaliste e non. Il secondo, che siamo arrivati a un punto di non ritorno. Concettualmente il percorso disegna un cerchio. Se l’umanità “evolve” a suon di antagonismo, se l’uomo ha soggiogato, sfruttato ed eliminato (o provato a eliminare) altri uomini, allo stesso modo quest’uomo vittorioso aggredisce la natura e di conseguenza se stesso.

Marzia Migliora, Paradossi dell'abbondanza #38, #39, #44, 2020 21, disegno, collage, mixed media su carta

Marzia Migliora, Paradossi dell’abbondanza #38, #39, #44, 2020 21, disegno, collage, mixed media su carta

EMIGRAZIONE E SFRUTTAMENTO DELLE RISORSE NATURALI

In the Inheritace, le vicende della famiglia Povinelli raccontano una storia di emigrazione felice che però mette in luce quanto la partenza sia solo l’inizio dello “strappo” che continua nei lunghi e impervi processi di riadattamento e integrazione. Processi che non escludono malattie fisiche e mentali e disagi sociali che si tramandano per generazioni. Per non parlare delle necessità che costringono a lasciare il proprio Paese, spesso dovute a disequilibri geopolitici (nel caso della famiglia Povinelli, le condizioni di povertà, incertezza e guerriglia di una zona di confine come le Alpi all’inizio del secolo scorso.) Tra emigrazione e colonizzazione il rapporto è diretto.
Per anni sono stata interessata al concetto di ‘differenza umana’ emersa nel periodo coloniale”, dice la Povinelli. “Ma qual è l’ALTRO di questo concetto?” domanda. Una risposta la danno i progetti del Karrabing Film Collective, con cui la Povinelli divide, oltre che una sala al Madre, anche parecchi mesi l’anno quando va a girare film con loro, nell’Australia del nord. I Karrabing Film Collective sono artisti e registi indigeni impegnati a produrre documentari di “realismo improvvisato”. Un “realismo” che si fa da solo, intrecciando il quotidiano a un surreale di fiabe, leggende e credenze legate al territorio. Non c’è differenza tra l’una e l’altra dimensione e sono altrettanto spontanee e libere le ragioni per cui il gruppo si è messo a fare film; stare insieme, raccontarci il loro rapporto con il territorio. Denunciare le dinamiche che hanno portato alla “differenza umana,” ovvero alla separazione tra l’indigeno e il non indigeno, ma anche alla sistematica eliminazione dei natives per il brutale sfruttamento della loro terra, in Australia come altrove. Tra emigrazione, colonizzazione ed esaurimento delle risorse del pianeta il cerchio è chiuso. The Mermaids or Aiden in Wonderland (2018), il video di 26 minuti del Karrabing Film Collective, è la storia di Aiden, un giovane indigeno che torna tra “i suoi” dopo aver vissuto con i bianchi. Tornare significa prima di tutto tornare a vivere all’aperto. Il mondo è ormai inospitale e troppo tossico per i bianchi che si rifugiano in luoghi chiusi. Il territorio è devastato dal fracking; il suolo brucia, l’acqua non si può bere; non ci sono case in giro tra le vaste zone recintate con segnaletiche: non oltrepassare! Insieme ad Aiden e “i suoi”, alcuni uomini ‒ protetti da tute e maschere isolanti ‒ vanno in giro a rapire i bambini per fare ricerca e capire come facciano “i neri” a sopravvivere all’aperto. Parallela a questa visione apocalittica c’è la realtà del Totem, delle sirene e delle tradizioni che gli indigeni chiamano il dreaming.
Le sirene conservano l’antica saggezza del luogo e riescono a fare resistenza ai bianchi rieducando i giovani al dreaming. Ovvero al contatto con la natura (per quanto contaminata), al rispetto della vita, che sia degli insetti, dei venti o delle maree.
They are killing our people trying to save their own”, dice Aiden a suo padre riferendosi ai bianchi, cercando le sirene.

Ivano Troisi, Cova, 2021, carta fatta a mano, pietre, idrocarburi. Commissionato per Rethinking Nature, MADRE, Napoli 2021

Ivano Troisi, Cova, 2021, carta fatta a mano, pietre, idrocarburi. Commissionato per Rethinking Nature, MADRE, Napoli 2021

IL COMPLESSO DIALOGO TRA ESSERE UMANO E NATURA

Anche Soot Breath /Corpus Infinitum (2021) di Denise Ferreira da Silva e Arjuna Neuman (video digitale, 40 minuti) riflette sui fenomeni di migrazione, dislocamento di popoli e di materie. Ed è sulla materia che il lavoro si concentra, portando la telecamera vicinissima alle navi cargo e le grandi infrastrutture immobili come monumenti sullo sfondo di paesaggi brasiliani e indonesiani dove la terra esplode di meraviglie, di minerali caldi e freddi, di lava che cola e laghi alluvionali di un colore tra il rosso rame e il verde metallico. Tutto si tocca in questo lavoro, tutto si fa, disfa e contamina in un vibrante divenire. È un’opera documentarista, ma anche di viaggio e scoperta che ci accompagna verso la possibilità di una soluzione ai problemi del pianeta: l’interconnessione, la non separazione tra l’uomo e l’altro da sé.
Black Eldorado (We are the earthquake) (2021) di Jota Mombaça e Iki Yos Piña Narváez propone la stessa soluzione nell’accostamento tra due video. In uno, immagini dell’estrazione dell’oro in Brasile e Venezuela; nell’altro l’esplorazione di una bocca da cui vengono estratti dei denti. La differenza tra il corpo umano e la Terra è sparita.
Idem in Silueta de Arena (Silueta Films 1974-81) di Ana Mendieta. L’artista si congiunge alla terra disegnando una silhouette con il proprio corpo e, nel farlo, esprime (già dagli Anni Settanta) il desiderio di una fusione tra uomo e natura, in cui il rapporto con la terra si arricchisce di una sensualità spirituale e di un senso di appartenenza profonda, misteriosa, totale.

LA MOSTRA AL MADRE DI NAPOLI

Rethinking Nature sicuramente apre a nuovi sguardi sul rapporto che abbiamo instaurato con la natura e sulla possibilità di cambiarlo. È un tema urgente e non a caso il museo ha in programma seminari e approfondimenti. Ben vengano perché, al momento, viene da chiedersi se Kathryn Weir e Ilaria Conti, come curatrici, non siano state ambiziose nell’aspettativa che i visitatori possano avvicinarsi a tematiche così complesse seguendo una trama curatoriale divulgativa, sì, ma forse anche poco selettiva (sono più di cinquanta le opere esposte, molte delle quali film di svariate decine di minuti) e digiuna di aspetti del linguaggio artistico legati anche alla leggerezza, l’ironia, il piacere.

Maria Pia Masella

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Maria Pia Masella

Maria Pia Masella

Laureata in Lingue e Letteratura Francese a Roma (La Sapienza), ha proseguito gli studi con un Master in Comparative Literature (University College London) e un secondo Master in Arte Contemporanea (Christie’s Education/University of Glasgow). Scrive per la rivista letteraria In-Arte,…

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