Ultime notizie: Sergio Risaliti racconta un’opera appena realizzata da Domenico Bianchi

Sergio Risaliti, direttore del Museo Novecento di Firenze, racconta le ultime produzioni degli artisti in un ciclo di appuntamenti su Artribune ficcando il naso direttamente negli studi. Dopo Giulio Paolini, adesso è la volta di Domenico Bianchi

Su cosa stanno lavorando i grandi artisti in questi giorni nelle loro case, nei loro studi? È una domanda che i critici, i curatori, gli appassionati d’arte si stanno ponendo. Molte le testimonianze che stanno giungendo ad Artribune: Alfredo Pirri dal suo studio, ci manda questo video dove racconta in prima persona come sta trascorrendo questi giorni, e Clara Tosi Pamphili ha inaugurato uno scambio epistolare con protagonisti del mondo dell’arte e della cultura, ma rivolto a tutti. Diversamente, nella rubrica Ultime notizie, che abbiamo inaugurato con l’opera Grazie a Giacinto di Giulio Paolini, il critico e curatore Sergio Risaliti, direttore del Museo Novecento di Firenze, racconta nel testo-compendio critico che segue e nel video l’ultima opera prodotta dagli artisti Paolini, Domenico Bianchi, Mimmo Paladino, Rebecca Moccia, Paolo Canevari, in uno scambio fruttuoso che ci porta non solo nel cuore del processo creativo, ma anche del rapporto tra artista e critico. Ecco la seconda tranche delle Ultime notizie con l’opera di Domenico Bianchi, Senza Titolo (2020; cera e palladio). 

IL TESTO DI SERGIO RISALITI

Le ultime notizie non tardano ad arrivare. Il tamtam sta funzionando. Gli artisti rispondono. Sono al lavoro nei loro atelier, studi, laboratori. E come potrebbe essere diversamente. In fondo l’artista vive sempre di eccezionalità pur nella normalità. L’opera è, di fatto, anche questo: eccezione a una regola. La riprova di questo pensiero mi giunge dallo studio di Domenico Bianchi che mi ha inviato la seconda Ultima notizia. Ogni giorno Domenico raggiunge lo studio, a meno che non sia in viaggio, e lavora a un quadro che rappresenta sempre un’eccezione nella serie. Nel suo lavoro lo schematismo è di norma: stessa organizzazione del lavoro, stessi gesti, un disegno originale che si ripete da anni configurandosi però sempre diversamente, elementi geometrici che non cambiano. La posizione dei cerchi però è sempre diversa, così come la misura. La composizione è sempre nuova.  Il colore della cera una volta è giallo, un’altra è il nero, oppure il blu profondo o il rosso rubino a farsi corpo di luce-risonanza luminosa. L’ultimo quadro, in altre parole, è sempre un’eccezione rispetto al precedente. Anche questa volta non si smentisce. L’opera nella foto rispetta la serie, ma si qualifica come eccezione. Come gli altri quadri è la somma armoniosa di due generi di procedimento creativo: uno ripetitivo e razionale, costruttivo e schematico, l’altro organico e imponderabile. 

 LA PITTURA DI DOMENICO BIANCHI 

Il quadro è in via di costruzione. Uso questa parola per dire che Bianchi non dipinge nel senso più tradizionale del termine, e non disegna neppure. Anche se poi ogni sua opera appartiene al mondo della pittura. Anche se, in ogni sua opera, la linea, quindi il disegno, ha un suo peso, una sua necessità che determina l’esistenza o meno dell’immagine. Quello di Bianchi è un metodo di lavoro che risponde a una certa logica, a qualcosa di precostituito, alla necessità di un controllo razionale della materia nel suo stendersi e aggiustarsi sulla superficie in fibra di vetro. A una differente ripetizione di schemi e meccanismi identici. Durante il processo, entra però in gioco un tipo di azione naturale che rende tutto molto organico. L’artista accetta di giocare su un campo diverso, entra in sintonia con processi creativi di tutt’altro genere. Accetta l’imprevedibile formarsi della bellezza secondo il modello genetico della natura. A questo punto il quadro rispecchia una dimensione cosmica. In fondo anche le leggi di convivenza tra pianeti e costellazioni sono le stesse nell’universo, anche se ogni pianeta è poi diverso, e ha la sua propria orbita. Dico questo perché guardando la foto che mi è stata inviata da Bianchi, penso immediatamente a una dimensione cosmica dell’immagine. Anche se poi è solo un quadro fatto con cera e palladio. Eppure, un quadro appeso alla parete, in certi casi, può metterci in connessione con mondi fuori dallo studio. Perfino fuori dalla terra e dalla sua atmosfera. Perfino con strutture profonde del micro e macrocosmo. Il quadro in questione non è una finestra aperta sul fuori, uno specchio che riflette il mondo reale. Bianchi non sente il bisogno di evadere dalla cornice sfondando la superficie con immagini illusorie. Tantomeno quello di rispecchiare eventi della cronaca mondana, il reale quotidiano.
Credo che fin dall’inizio del suo percorso artistico, abbia voluto costruire qualcosa di complementare alla natura, qualcosa che però non si trova in natura, qualcosa che non esisteva prima di adesso in natura. E per fare questo ha cercato di fare proprie le esperienze di altri artisti, scoprendo affinità e differenze tra epoche e scelte linguistiche, ma anche tra invenzioni artistiche e processi naturali, fisici o chimici.  È anche probabile che abbia incrociato un altro genere di esperienze, ad esempio spirituali, antroposofiche o teosofiche. Ma, come sosteneva Wittgenstein, su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere. Posso però citare un verso di Jorge Guillén, che credo possa stare a fianco del quadro come fosse una didascalia. “Con la luce mi perfeziono /Io sono in virtù della bella Rivelazione: questo Globo. / Si arrotonda un desiderio/ Che non tramonta…”.

L’USO DELLA CERA NELL’OPERA DI DOMENICO BIANCHI

L’uso costante della cera – custode di vita e trasmettitrice d’informazioni biologiche e cosmologiche preziose – rivela una propensione a liberare l’opera-quadro dalla cornice e quasi a staccarla dalla parete per lasciar essere concretamente la materia pur trasformata in immagine. Il profumo aggiunge altri valori, oltre a quelli tattili. Merita, a questo punto, spiegare le fasi di lavoro. La cera subisce un processo quasi alchemico di trasformazione. Da solido l’elemento passa allo stato liquido, attraverso il suo surriscaldamento fino a 45° C circa (113°F), che è il suo punto di fusione. Alla cera, le cui proprietà maggiori sono di essere malleabile, viscosa e idrorepellente, viene aggiunta una certa dose di trementina. Poi il tutto è mescolato al colore: nero avorio, blu oltremare, aerolina, rosso cinabro, vermiglione e giallo di Napoli, quel colore che secondo Cézanne non poteva mai mancare nella tavolozza di un pittore. Poi quando è ancora calda, la cera viene versata sulla superficie del dipinto. Bianchi lavora sul piano orizzontale – il supporto è appoggiato su di un tavolo o su due cavalletti. Con movimenti lenti ma sicuri sa come far colare la cera, seguendo l’immagine prefissata, attraverso la costruzione di campiture e bordi che orientano e separano il fluido, in modo da ottenere profili precisi, nette linee di demarcazione fra campi e piani, fra zone diverse per trasparenza e luminosità. Una volta che la cera è raffreddata, quindi quando è tornata alla sua natura solida, Bianchi lavora con lamette e spatole a rifinire e livellare in piani. Questa è una fase del lavoro molto importante, la qualità del dipinto dipende anche da questo lavoro di “limatura”: un’operazione assai lenta, giocata sulla sensibilità e la concentrazione. L’eleganza calligrafica del disegno è definitivamente perfezionata da Bianchi in questa azione, con movimenti rallentati e morbidi. La cera raggiunge un grado elevatissimo di trasparenza, assieme alle sottili foglie di palladio, suggerisce forme mai identiche, cromie mai monotone, complessità e articolazioni euritmiche. Cerchi, spirali, tassellature, definiscono l’immagine-immaginario, il quadro si completa.

MATERIA E LUCE NELL’OPERA DI DOMENICO BIANCHI

Finalmente tutto è come fosse eterizzato: materia, luce, figure geometriche, linee. E tutto è come divenisse nel momento, come se il divenire fosse ancora in gioco e procedesse verso un punto finale. La temporalità dell’immagine è dunque circolare: comprende inizio e fine, una durata, origine, compiuta perfezione. La luce, finalmente, è come incarnata nella materia e al tempo stesso funziona da alimentatore e amplificatore dell’immagine, completata attraverso il vitale auto-generarsi della linea che misura e dirige il tempo e lo spazio. Il quadro per Bianchi è quindi cosmo nascente sempre in espansione. Agli occhi dello spettatore l’opera appare già fatta da sempre, e contemporaneamente è in divenire. Così sembra dimostrare il disegno che si evolve al suo interno, dal centro verso le periferie e viceversa. Inizio e fine, dicevamo, coincidono, e l’ipotesi di un divenire in atto è rimarcata dalla luce, dall’organicità della materia, dallo sviluppo della linea in una figura non finita, dallo sviluppo dei piani, che sembrano espandersi oltre le griglie.

 L’ARTE “MADE IN ITALY” SECONDO SERGIO RISALITI

Ora, c’è un punto che sento necessario chiarire, in questa giornata strana, durante la quale non si avverte un rumore di aereo occupare lo spazio celeste. Il punto è questo. Un critico anglosassone non metterebbe di mezzo il cosmo, la natura, il sentimento, il sublime, Leopardi o Galileo; non citerebbe la trasfigurazione di Raffaello o la composizione geometrica sottesa a certe Madonne con bambino Sant’Anna e il piccolo Battista, come quelle misteriosissime di Leonardo. Non farebbe riferimento a quel tipo di schematismi disegnati a base di cerchi, triangoli, sfere, piramidi che si elaborano per spiegare il misterioso fascino di quelle meravigliose costruzioni figurative. Non citerebbe la sezione aurea per spiegare l’armonia raggiunta, la serena stabilità degli incastri, l’imperturbabile equilibrio nella dissonanza di piani ed elementi. Tratterebbe molto più semplicemente di superfici, di grammatica visiva, della tipologia dei materiali, della variazione nella serie, di porosità e riflessione dei materiali, della funzione del metallo e della cera, di altri argomenti del genere. A me piace invece perdermi in certe elucubrazioni. Pensare ad esempio a esperienze artistiche che vanno dalla sinuosa morbidezza delle pieghe in Correggio e Bernini, a certi disegni di globuli e spirali in Fontana, alla frase del poeta iraniano Rumi ripresa da Mario Merz per realizzare con pochissimo materiale una delle sue opere più straordinarie: Se la forma scompare la sua radice è eterna. Sono sicuro che Domenico ne conosca perfettamente il senso. Che in qualche modo questa frase possa essere anche un suo mantra. Ebbene sì, quando guardo opere come questa di Domenico, riconosco esattamente cosa sia il Made in Italy. Una filiera storico-artistica di cui mi compiaccio di parlare per entrare in sintonia con opere come queste. Sono vittima di questi giochi della mente. E sono convinto che esista inconfondibile il Made in Italy. Ed è questa, credetemi, una buona notizia. Soprattutto in questa giornata mentre nel cielo non passano aerei. 

– Sergio Risaliti

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Sergio Risaliti

Sergio Risaliti

Sergio Risaliti (1962), si è laureato a Firenze in Storia dell’arte moderna e contemporanea. Dal 2018 è direttore artistico del Museo Novecento di Firenze. E’ storico e critico d’arte, ideatore e curatore di mostre e di eventi interdisciplinari, scrittore e…

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