Nello spazio espositivo apparentemente vuoto risuona il crepitio del pavimento che, realizzato in gesso e cemento, cede e si frantuma sotto i passi dei visitatori. Il rumore materico del piano di calpestio si trasforma in tappeto sonoro, un estraniante riverbero mentale che imbratta simbolicamente con espressioni linguistiche, frasi sprezzanti e commenti offensivi i quattro lati della colonna in galleria. In questa occasione Andrea Famà (Catania, 1988), abile sperimentatore, guarda in maniera ironica e allo stesso tempo dissacrante al patinato sistema dell’arte contemporanea.
La mostra muta sonoramente in occasione della presenza degli osservatori. Incline alla materialità oggettuale dell’opera e all’esperienza performativa, l’artista pone l’accento sulle fragilità e le frivolezze di un mondo che oramai, nella maggior parte dei casi, è composto da un pubblico distratto (compreso anche quello degli addetti ai lavori) e senza alcuna cura del tempo dedicato alla fruizione dell’opera. L’esposizione è una riflessione sul concetto di mostra e sulle dinamiche dello show-business come atteggiamento narcisistico e superficiale di un particolare tipo di pubblico, che condanna il valore dell’arte all’oblio di ricordi vuoti, commenti sterili ed espressioni banali.
– Giuseppe Amedeo Arnesano