L’opera di Natale Zoppis (Verbania, 1952) indaga uno dei più misteriosi fraintendimenti della storia della linguistica: “L’uomo nasce dall’infinito e torna all’infinito”, così è sempre stata tradotta la massima di Anassimandro, finché il filologo Giovanni Semerano non ha chiarito l’“equivoco millenario”, traducendo àpeiron con l’accadico eperu, ovvero “polvere, fango”. “L’uomo è polvere e polvere tornerà”.
È un lavoro di scavo lessicologico cui Zoppis si ispira per l’esplorazione della frammentarietà del reale. Le scansioni di accumuli di polvere su vetri e fogli di acetato diventano empirei stellati, microcosmi, destini che si incrociano impercettibilmente. Le molteplici variazioni delle particelle, avulse da ermetismi, acquisiscono il peso della memoria, divenendo portatrici di significato in puro divenire: l’infinito, dapprima frainteso, ora è libero di rivelarsi in tutta la sua sconsideratezza. Scrutando, i misteriosi disegni di polvere si dilaniano; la “danza delle costellazioni” e il moto perpetuo dei corpuscoli orgogliosamente esibiscono le infinite esperienze della civiltà, cristallizzandosi nel fotogramma e rivelando una carica evocativa di rara maniera – di un’acutezza imperdibile.
– Federica Maria Giallombardo