L’Italia può ancora amare l’arte contemporanea?

In un suo recente libro, Ludovico Pratesi indaga il rapporto tra Italia e arte contemporanea. Qui una riflessione in merito a questo tema per provare a capire chi, nel trilemma fra cittadino, Stato e arte, ha davvero l’obbligo di una prima mossa.

Il rapporto che lega l’Italia con la propria cultura e con la cultura in generale è un rapporto molto complicato e per nulla lineare. Da un lato gli italiani non leggono, non comprano libri, non visitano i musei e non vanno a teatro, dall’altro siamo orgogliosi di essere i rappresentanti di un patrimonio culturale che ci contraddistingue nel mondo.
Svogliati lettori di notizie da smartphone di giorno nei mezzi pubblici e ferventi conservatori da tastiera quando si tratta di esprimere la propria opinione sui social, magari nel weekend, mentre si dirigono verso le periferie cittadine alla ricerca di nuove ambitissime occasioni di arricchimento personale tra le vetrine dei centri commerciali.
Sembrerebbe assurdo, ma a guardare le statistiche degli ultimi anni (togliendo le occasioni “gratuite”), nonostante gli aumenti nella fruizione culturale, pare che gli italiani siano orgogliosi di cose che non amano.
In realtà, dal punto di vista economico (lasciando alla psicologia la motivazione dell’evidenza) il fenomeno è tutt’altro che assurdo: esso si basa sull’evidenza che l’essere umano tende naturalmente a dare un valore al “possesso”. Detto in altri termini, secondo molti studi condotti sperimentalmente, gli esseri umani tendono a dare un maggior valore a un oggetto di loro proprietà rispetto a quello che sarebbero disposti a pagare per lo stesso oggetto qualora questo fosse di qualcun altro.
Come dire: i musei sono la parte più importante della nostra cultura ma al museo ci vado solo quando è gratis (che è poi quello che succede ogni “domenica al museo”).
È da questo rapporto che bisogna partire quando si vuole cercare di guardare con lucidità al rapporto che l’Italia e gli italiani hanno con l’arte contemporanea. Rapporto reso ancor più critico dall’assenza di quel brand di cui invece godono artisti meno recenti e più affermati nell’immaginario collettivo italiano.

Ed è qui che entra in gioco il sistema Paese, che dovrebbe sostenere le proprie produzioni culturali perché è in esse, e non nello spettro di una cultura che non rappresentiamo più, che dovremmo vedere le nostre reali risorse e potenzialità”.

Il problema quindi non è solo se l’Italia come Paese sia o meno in grado di sostenere l’arte contemporanea: è chiaro che la nostra classe dirigente da decenni non ha alcuna intenzione di sostenere tale settore. Il problema è capire se gli italiani potranno mai amare la loro arte contemporanea.
La risposta, fuor di retorica, potrebbe provenire da argomentazioni piuttosto tecniche e, più esattamente, dal capitale di conoscenza e dall’investimento cognitivo.
Senza entrare troppo nei dettagli, è possibile vedere come funzionino attraverso un esempio che riguarda una delle forme di produzione culturale più rappresentative degli ultimi anni: le serie televisive. Se si guarda per la prima volta una serie a partire dalla prima puntata, si avrà un’adeguata conoscenza di eventi e personaggi, e questo permetterà di guardare le puntate successive con una dote di attenzione “minore” rispetto a chi inizi a vedere la serie a partire dalla quarta puntata e sia quindi costretto a ricostruire quanto è successo sulla base di ciò che vede.
Questo è pacifico, così come è altrettanto pacifico sostenere che questo “sforzo” di visione e comprensione debba essere motivato in qualche modo. Questa motivazione può essere sia interna all’episodio (banalmente, il soggetto che guarda lo trova interessante) o esterna (e qui può esserci tanto un consiglio esterno oppure la conoscenza di attori che recitano all’interno degli episodi).
Con l’arte contemporanea è più o meno la stessa cosa ma con una differenza: gli italiani si sono persi gli episodi precedenti e spesso non hanno nessuna motivazione (interna ed esterna) a sforzarsi di capire.

Ludovico Pratesi, Perché l'Italia non ama più l'arte contemporanea

Ludovico Pratesi, Perché l’Italia non ama più l’arte contemporanea

IL RUOLO DEL SISTEMA PAESE

Ed è qui che entra in gioco il sistema Paese, che dovrebbe sostenere le proprie produzioni culturali perché è in esse, e non nello spettro di una cultura che non rappresentiamo più, che dovremmo vedere le nostre reali risorse e potenzialità.
È qui che l’Italia dovrebbe correggere quella scissione che c’è tra gli italiani e l’arte contemporanea, facendo in modo che quest’ultima possa avere gli strumenti per “presentare i propri personaggi”, per educare a sé, insomma.
Sopperire alla mancanza di investimento cognitivo che gli italiani sono a oggi disposti a sostenere per poter comprendere un’opera d’arte contemporanea, con un maggiore capitale di conoscenza (che non sia introdurre quote cultura alle tre di notte). Fare in modo che guardare un’opera d’arte contemporanea sia naturale per gli italiani, che sia normale per tutti conoscere i nomi più celebri degli ultimi cinquant’anni d’arte così come si conoscono nomi celebri della moda, del cinema, della televisione e dello sport.
In questo senso però si introduce un problema politico non irrilevante: nel gioco di ruolo della nostra democrazia, il politico cerca di massimizzare la propria popolarità facendo ciò che il cittadino si aspetta da lui e gli attuali italiani non sembra decideranno chi votare alle prossime elezioni sulla base dei programmi politici in materia di arte contemporanea.
In questo cortocircuito, però, chi dovrebbe essere davvero motivato a cambiare le cose, vale a dire i protagonisti dell’arte contemporanea, sembrano piuttosto assenti. E allora di che cosa parliamo?

Stefano Monti

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Stefano Monti

Stefano Monti

Stefano Monti, partner Monti&Taft, è attivo in Italia e all’estero nelle attività di management, advisoring, sviluppo e posizionamento strategico, creazione di business model, consulenza economica e finanziaria, analisi di impatti economici e creazione di network di investimento. Da più di…

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