Biennale di Venezia. Parallelo tra le inquietudini di Roberto Cuoghi e Anne Imhof

Nuova riflessione sulla Biennale curata da Christine Macel. Stavolta Ludovico Pratesi mette in luce le similitudini concettuali fra gli interventi di Roberto Cuoghi nel Padiglione Italia e di Anne Imhof nel Padiglione tedesco.

Luce, ombra. Trasparenze, oscurità. Corpi sacri divenuti carne in decomposizione, corpi vivi privi di sesso, e di futuro. Dure trasparenze di vetro, morbide curve di plastica. Due laboratori sospesi fra terra e aria, dove la rigida fissità degli esseri umani si stempera nel pensiero. Un apprendista stregone e una coreografa del controllo. Entrambi taglienti e rigorosi, affondano il bisturi nella storia dell’arte e nel presente-futuro, con la stessa inquietante cattiveria. Ma le loro identità sono diverse, politiche e religiose. Lei tedesca, con alle spalle il vuoto consapevole delle chiese luterane, con i loro giochi silenziosi di luci e ombre, e la certezza di una possibile salvezza solo alla fine dei tempi. Lui italiano, avvolto nell’ombra umida delle cripte medioevali, con lo sguardo rivolto a un Cristo sofferente, dispensatore di sensi di colpa ma anche di assoluzioni. Lei mette in scena un presente ansioso, dove cose e persone perdono peso e senso, e gli esseri umani si muovono come pesci in un acquario, o animali in gabbia. Lui ti accompagna nel gorgo della materia che si decompone lentamente, per distruggere l’immutabile sacralità dell’icona contaminandola con la precarietà della materia.

UN FAUST CONTEMPORANEO

Apparentemente lontanissimi, ma in realtà complementari, Imitatio Christi di Roberto Cuoghi e Faust di Anne Imhof sono i capolavori della Biennale, forse le uniche due opere capaci di produrre domande e questioni, riflessioni e pensieri generativi di senso e forieri di problematiche. E la prima, la più bruciante, è capire dove siamo noi rispetto a questi due capolavori, da che parte stiamo nell’analizzarli e giudicarli. Quando siamo entrati nel padiglione tedesco, abbiamo camminato su un pavimento di vetro sospeso a un metro da quello vero, che nel 1993 Hans Haacke aveva divelto e ridotto a un cumulo di macerie, reali e pesanti nella loro matericità, in un mondo fisico dove il web stava muovendo i primi, piccoli passi. Ora Anne Imhof lo trasforma in uno schermo trasparente ma invalicabile, soglia impalpabile tra reale e virtuale, spazio liquido e futuribile dove i ragazzi si muovono come automi, ma anche modelli o animali, e noi li rincorriamo per iconizzarli, imprigionarli nello schermo dei nostri smartphone. Carcerieri e voyeur, complici o carnefici, vittime o trofei? Dentro o fuori? Pro o contro? Esiste la Dittatura dello spettatore alla quale Francesco Bonami aveva dedicato la Biennale del 2003 (dieci anni dopo quella di Achille Bonito Oliva, I punti cardinali dell’arte) o piuttosto sono gli artisti a rivelarci la dittatura dei touchscreen, che sta divorando il nostro sguardo per attirarlo in una visione senza giudizio né prospettiva?
La Imhof sceglie di mettere in scena un’attualità dove ogni barriera è stata cancellata, i corpi sono pure immagini, prede da cacciare in un safari della visione che coinvolge numeri sempre maggiori di persone disposte a fare ore di fila per scattare un’immagine, o un video, che garantisca un hic et nunc schizofrenico. Entriamo nel tempio-carcere, protetto da alte cancellate e cani feroci, per vedere noi stessi riflessi in uno specchio ambiguo e crudele, uno spazio tagliente e chirurgico dove tutto può accadere ma non accade nulla, tranne che il mettere a nudo la nostra esistenza ridotta a simulacro. Credi di guardare ma non vedi, ritieni di riflettere ma non pensi, sei convinto di essere burattinaio ma in realtà agisci come una marionetta. Non lo sai ancora, ma, come Faust, hai già venduto l’anima al male.

57. Esposizione Internazionale d’Arte, Venezia 2017, Padiglione Germania, Anne Imhof, Faust [Eliza Douglas]. Photo © Nadine Fraczkowski. Courtesy German Pavilion 2017 & the artist

57. Esposizione Internazionale d’Arte, Venezia 2017, Padiglione Germania, Anne Imhof, Faust [Eliza Douglas]. Photo © Nadine Fraczkowski. Courtesy German Pavilion 2017 & the artist

RELIGIONE E SCIENZA

Dall’asettica luce dei Giardini alle umide oscurità dell’Arsenale, dove Roberto Cuoghi mette in scena la sua Imitatio Christi, dominata da un unico corpo crocefisso replicato decine di volte, che si fa carne per ricoprirsi di muffe, batteri e muschi che lo decompongono in un processo lento ma definitivo, all’interno della navata di una basilica paleocristiana, dove troneggiano alle pareti brandelli di braccia e gambe scheletriche, insieme a calchi imperfetti di volti. In una sorta di Kabinett des Doctor Caligari, assistiamo alla fattura di manufatti senza tempo né storia, improbabili reperti di epoche lontane. Se il padiglione della Imhof è un tempio protestante, la caverna ctonia di Cuoghi è la cripta di una chiesa cattolica, dove si ammassano le reliquie di decine di corpi di Cristo, profondamente sessuali e sessuati con i genitali a vista, non coperti da drappi né da pudiche stoffe. Ma anche un laboratorio scientifico, dove la manipolazione e la riproduzione di corpi è un fatto corrente, all’interno di un tempo ciclico, come sottolinea Chris Wiley, che caratterizza la ricerca di Cuoghi, Corpo come reliquia, frammento di mondo soprannaturale calato sulla terra, ma anche esempio morale, indispensabile viatico per l’aldilà, secondo le parole del monaco tedesco Thomas da Kempis (1380-1471), autore del testo dal quale prende il nome l’opera di Cuoghi. “Ti dovresti comportare, in ogni azione e in ogni tuo pensiero, come se tu dovessi morire oggi. Se tu disponessi di una coscienza tranquilla, del resto, non avresti particolarmente paura della morte”, scrive de Kempis nella sua Imitatio Christi. E Cuoghi accoglie la sfida, suggerita anche dalla sinistra tela del Cristo Morto, dipinta da Hans Holbein nel 1521, che l’artista sembra aver preso come fonte iconografica di ispirazione per la sua installazione.

TRA STORIA E FUTURO

Se la Imhof parla al presente con lo sguardo rivolto al futuro, Cuoghi si rivolge invece al passato oscuro e lontano, per affondare le mani nella melma della storia. E lo fa con una consapevolezza tutta italiana, che lo rende in grado di analizzare e dissezionare, come un medico in un gabinetto anatomico, le tracce di una memoria antichissima, capaci di risvegliare questioni centrali della cultura occidentale, che Cecilia Alemani ha definito “sopravvivenza dell’antico”. Memoria che, con ogni probabilità, torna a essere viva oggi, in un periodo cupo e caotico, dove i punti di riferimento si polverizzano e la paura dell’ignoto sembra impossessarsi del mondo ogni giorno di più.

Ludovico Pratesi

Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati

Ludovico Pratesi

Ludovico Pratesi

Curatore e critico d'arte. Dal 2001 al 2017 è stato Direttore artistico del Centro Arti Visive Pescheria di Pesaro Direttore della Fondazione Guastalla per l'arte contemporanea. Direttore artistico dell’associazione Giovani Collezionisti. Professore di Didattica dell’arte all’Università IULM di Milano Direttore…

Scopri di più