Biennale di Venezia. Il Padiglione tedesco di Anne Imhof

Duro come il vetro, il Padiglione della Germania vince il Leone d’Oro riportando a una riflessione sull’arte in cui la dimensione estetica non si sottrae a quella politica.

Duro come il vetro, trasparente come il controllo, il Padiglione tedesco alla Biennale di Venezia, vincitore del Leone d’Oro, è un’opera installativa corale di Anne Imhof, classe 1978, concepita e sviluppata insieme al team di performer con cui l’artista collabora: Franziska Aigner, Billy Bultheel, Emma Daniel, Eliza Douglas, Josh Johnson, Frances Chiaverini, Mickey Mahar, Lea Welsh, sotto la curatela di Susanne Pfeffer.
Con Faust, questo il nome dell’opera, Imhof trasforma lo storico e imponente edificio del Padiglione tedesco in un luogo protetto, una casa, un’istituzione, uno Stato, difeso da un recinto di barriere d’acciaio da cui due doberman, longilinei e severi, monitorano l’accesso.
Protezione, addomesticamento, controllo, sospensione, violenza appaiono come le parole chiave enunciate già nella prima immagine su cui si struttura l’intervento artistico: un’opera scultorea e coreografica attraversata da cicli performativi di quattro ore.
La durata del lavoro, e della sua visione, è intesa da Imhof come un periodo definito, chiaro, concluso ma attraversabile, con una discrezionalità che pone al visitatore l’obbligo di una scelta, di un contratto non scritto con l’opera, in cui si definisce il grado di vincolo, di aggiogamento, di reciproca responsabilità tra osservatore e osservato.
Perché in Faust il ruolo dello spettatore, o meglio dell’osservatore (che per la visione oculare, panottica del lavoro si sostituisce allo status di visitatore), è sotto il fuoco di una lente implacabile, esposto clinicamente e contemporaneamente allo sguardo del pubblico stesso e a quello dei performer che guardano e sono guardati, come in uno zoo, come in un acquario. Nell’ambiguo gioco di specchi rimane sospesa la domanda su chi controlla la scena, su chi guarda chi.

57. Esposizione Internazionale d’Arte, Venezia 2017, Padiglione Germania, Anne Imhof, Faust [Eliza Douglas & Franziska Aigner]. Photo © Nadine Fraczkowski. Courtesy German Pavilion 2017 & the artist

57. Esposizione Internazionale d’Arte, Venezia 2017, Padiglione Germania, Anne Imhof, Faust [Eliza Douglas & Franziska Aigner]. Photo © Nadine Fraczkowski. Courtesy German Pavilion 2017 & the artist

UNA GIOVENTÙ DISTOPICA

Anne Imhof parte dall’architettura, la rilegge, ne evoca il genius loci e lo trasforma in uno spazio glaciale, il cui accesso è permesso dalle porte laterali. Un luogo di assenza di colore, sospeso, come il tempo che lo percorre, mediante un pavimento vitreo che sospende il piano calpestabile rispetto al basamento reale, a sancire la separazione e, allo stesso tempo, la permeabilità tra il mondo di sopra e il mondo di sotto. Una casa che non ospita e non accoglie, dove corpi di una gioventù distopica, neo-apatica, occupano lo spazio, sotto vetro.
Come nei luoghi del potere o dell’istituzione, la trasparenza, che nel vetro si fa materia, è il medium, il dispositivo del controllo dei corpi, dell’aggiogamento della nuda vita a meccanismo, nel gioco dell’abitare perturbante dell’architettura.
In abbigliamento rigorosamente streetwear, diversamente abbinato (magliette death metal, ginocchiere imbottite, sneakers, anfibi), i corpi di giovani algid, agiscono come in una gabbia, una fabbrica, una clinica, un lager, iniettati di una Melancholia illa heroica, che li possiede e li eleva.
In questo spazio e tempo vuoti, sospesi, seppur estremamente coreografati, tutto è consegnato alla possibilità, all’accadimento, in un gioco post adolescenziale pervaso di crudeltà e di noia. I performer, presenze algide, eroiche, atarattiche, no gender, intercettano lo sguardo dei presenti, assenti, percorrono lo spazio in modo animale, sfilano con potenza, entrano ed escono dall’edificio, lo possiedono, lo segnano con disegni, gesti, suoni, scritte: NOT AGAIN. La frase graffita dalla performer Eliza Douglas riverbera in rosso sulla parete e riecheggia nella scena, come dopo un eccidio, alla fine della storia, al termine di un’alba e di una notte che non si può raccontare.
I tre ambienti principali sono arredati da props, oggetti perturbanti quanto seducenti, disposti in modo puntuale come in un set fotografico. Sette saponette bianche, asciugamani, barattoli di vasellina, cotone, alcol etilico, materassi di latex nero, campane dorate, corde, cavi elettrici con le estremità metalliche forgiate a testa di cane, fionde, pallini d’argento, un’ambientazione fetish, in cui gli oggetti sono distanziati dal pubblico da vetro e balaustre.

57. Esposizione Internazionale d’Arte, Venezia 2017, Padiglione Germania, Anne Imhof, Faust [Eliza Douglas & Franziska Aigner]. Photo © Nadine Fraczkowski. Courtesy German Pavilion 2017 & the artist

57. Esposizione Internazionale d’Arte, Venezia 2017, Padiglione Germania, Anne Imhof, Faust [Eliza Douglas & Franziska Aigner]. Photo © Nadine Fraczkowski. Courtesy German Pavilion 2017 & the artist

AZIONI E VERTIGINI VISIVE

Che cosa accade in questo paesaggio e a quale fenomeno siamo chiamati a rispondere è questione da definire.
Anne Imhof, insieme ai suoi interpreti, ordisce, con l’assistenza coreografica dell’intenso Mickey Mahar, una trama di azioni letterali, di una concretezza tale da diventare iconica. Premere il corpo contro il vetro, calpestare con il piede la mano di un altro, soffocarsi vicendevolmente, toccarsi, bruciare oggetti, fare l’headbanging sospesi a due metri da terra su una lastra di vetro di 50 cm: sono alcune delle sequenze che percorrono una struttura coreografica fatta di nuclei di azione che si ripetono, dilatati, in modo ciclico ma mai identico, generando quadri, campi di visione.
Attraverso la sospensione e la lentezza, piccole azioni quotidiane sono condotte sino al loro limite e si ribaltano in altro da sé.
Sottratti alla metamorfosi, i gesti non diventano mai simbolo, restano quello che sono, ma rivelano nell’incedere dell’atto la loro relazione con il dolore, quasi che questo coincidesse con lo specifico umano, racchiudendo il parossismo nel quadro e nei parametri di un’algida astrazione.
La persistenza dell’atto si traduce in persistenza dell’immagine e della visione e crea in chi la osserva una vertigine visiva che interroga sulla responsabilità del guardare, dell’essere testimoni di fatti, complici impartecipi della scena, consumatori di immagini.

57. Esposizione Internazionale d’Arte, Venezia 2017, Padiglione Germania, Anne Imhof, Faust [Emma Daniel]. Photo © Nadine Fraczkowski. Courtesy German Pavilion 2017 & the artist

57. Esposizione Internazionale d’Arte, Venezia 2017, Padiglione Germania, Anne Imhof, Faust [Emma Daniel]. Photo © Nadine Fraczkowski. Courtesy German Pavilion 2017 & the artist

INQUIETUDINI CONTEMPORANEE

Nessun sentimentalismo, nessun cedimento al pathos e alla soggettività, nemmeno quando le performer Franziska Aigner e Eliza Douglas cantano, microfonate da piccoli collarini disposti sui polsi, con voci oscure e piene, melodie postromantiche da loro composte insieme a Billy Bultheel e alla stessa Anne Imhof; nemmeno quando muri di suono riempiono la scena, amplificati da chitarre distorte, o quando si ode il fischio partigiano di Bella ciao riverberare negli echi di una stanza gelata.
Una dinamica di momenti corali ritma il tempo della performance: gli interpreti attraversano lo spazio a guisa di croce, lo percorrono percuotendosi il corpo, inframezzano con urla un catwalk di straordinaria potenza, che si congela in uno still frame creando composizioni visive di gruppo pittoriche, quasi pubblicitarie. Al termine del lavoro, sempre puri, ferali, lontani, attraversano il vetro e se ne vanno lasciando l’ambiente vuoto, segnato da un’assenza.
Questo Faust, nella sua inquietudine, è un’opera post-romantica che parla al tempo presente: scenari attuali di periferie anomiche, confini, nuovi lager, Fortezza Europa. L’opera racconta di una cultura medicalizzata e anestetizzata e allo stesso tempo di una civiltà al suo limite, pronta per una nuova era, abitata da un uomo nuovo, cucito, tagliato, erotizzato, antisociale, eppure politico.
È un inno alla qualità imprevedibile del caos, al post-human, al no-gender, alla radicalità espressiva di quei corpi segnati che nella loro impenetrabilità, indomabilità, fierezza, brillano dell’“eccitante solitudine di chi si è sottratto alla legge dell’identico e non cerca appartenenze o militanti identità condivise” (Maria Nadotti, Da Beatriz a Paul Preciado, Doppiozero, 23 ottobre 2015).
Qui, per usare le parole di Paul B. Preciado, sembra innalzarsi una nuova figura della politica-mondo, quella di Diogene il cinico, “che ai poteri della città ateniese […] preferisce il parlamento dei cani; alle leggi del più forte la forza del riso; al diritto civico della guerra oppone la pigrizia e la masturbazione” (Paul B. Preciado, Tra le anime randage di Istanbul, Internazionale, 1° ottobre 2015). Una dichiarazione d’amore alla giovinezza, alla devastazione, al potenziale creativo che in ogni atto di distruzione si genera.

– Maria Paola Zedda

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Maria Paola Zedda

Maria Paola Zedda

Curatrice ed esperta di performance art, danza e arti visive, rivolge la sua ricerca ai linguaggi di confine tra arte contemporanea, danza, performance e cinema. Ha lavorato come assistente e organizzatrice per oltre un decennio nelle produzioni della Compagnia Enzo…

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