L’arte davanti al progresso. La mostra al Madre di Napoli

52 artisti italiani e internazionali si misurano con l’idea di “progresso” e con le sue ricadute economiche, sociali, antropologiche. Succede nella mostra allestita al Museo Madre di Napoli. A partire dal Sud

La disillusione ha un sapore dolce e velenoso. Quella dell’energia ancora in volo, privata di direzione verso l’utopia, che si ribalta improvvisamente distopica. Da sempre, l’arte rimescola e riformula creativamente canalizzazioni a quell’energia, strappandola a una macerazione e stagnazione autointossicante. Ma la consapevolezza è il primo passo. A livello sociale, individuale, archetipico; come le sfere concentriche individuate dalla curatela sensibile, e lucida, di Kathryn Weir nella mostra al Museo Madre di Napoli. Che approfitta dell’operazione, già da troppo necessaria, dell’inserimento critico della questione meridionale in un’allargata ottica geopolitica globale per intessere una mappatura artistica e relazioni operative col territorio creativo in cui da poco in fin dei conti – causa anche sospensione pandemica – si è insediata.
Il risultato è una mostra plurisemica, globale, locale, intima e corale al tempo stesso, di respiro molto più che episodico, in cui anche opere non recenti assumono rinnovati sensi in una cornice rigenerante.

Giulio Delvè, Carazia, 2020, portiere delle auto di Carabinieri e Polizia. Photo © Giorgio Benni. 
Courtesy l’artista

Giulio Delvè, Carazia, 2020, portiere delle auto di Carabinieri e Polizia. Photo © Giorgio Benni. 
Courtesy l’artista

LA MOSTRA AL MADRE DI NAPOLI

Si inizia con lo straniamento ironico del prelievo urbano scultoreo e fotografico di Giulio Delvè, che icastizza potere e ribellione come globi energetici vivi, emergenti dalla distratta quotidianità urbana. Scrollata dalla rabbia ben più dura di Domenico Antonio Mancini, che mutua veicoli comunicativi pubblici ‒ neon luminosi ‒ virandoli però in messaggi assolutamente non politically correct. La stessa luce si distende invece come velo poetico sulle cose nella ricognizione fotografica di Raffaela Mariniello, che distilla speranza dalla lucidità sociologica resa umana elegia.
Tutto è possibile nel raccoglimento, come nel nido-firma di Michele Iodice, risucchiamento di spazi e forze individuali in strutture e simboli architettonici acronici e transbiologici, che accomunano tutte le specie. Oppure, la speranza può venire dalla condivisione, in un’arte relazionale che fila connessioni esistenziali, mentali, visive, rendendo materia prima un intero paese e il suo inconscio collettivo e personale, come nella ricerca di Bianco Valente, da sempre interpreti del senso profondo del connettere che accomuna digitale, umano, sociale.

GLI ARTISTI IN MOSTRA AL MADRE NAPOLI

La natura e l’artificio hanno uno scarto che è limen osmotico nella grafica rivelatrice organicismi urbani di Eugenio Tibaldi, o sono in disperante contrapposizione, come nel neopop di Baldo Diodato o gli incubi postsurreali di Mathilde Rosier. Onirismo che invece ritorna sereno negli archetipi ormai storici di Mimmo Jodice e Antonio Biasiucci, fotografanti anime, prima che reale.
L’egida di Joseph Beuys ricorda la responsabilità individuale, come l’esperienza-esperimento naturale e sociale di Eugenio Giliberti, e la rigenerazione sociologica di Riccardo Dalisi. Con tutte le durezze del caso, come nella conflagrazione tra dignità individuale e stereotipi o strumentalizzazioni sociali di Melita Rotondo, Betty Bee, Giulia Piscitelli. Che si carica di pathos, sottilmente ironico e malinconico in Roxy in the Box, la quale rigenera la performance in metalinguismo sui dispositivi di comunicazione di massa odierni – in questo caso video e tv ‒ molto oltre il neopop. O neoantropologico, nelle azioni di potente impatto narrativo ancestrale di Rosy Rox.
La narrazione della speranza è del resto un tuffo nel vuoto, reso possibile dalla fiducia di appartenenza a una rete culturale e di anime che sempre salverà, ricorda il citazionismo emotivo di Giulio Paolini, e ha la fragilità d’acciaio delle farfalle di Rebecca Horn. Ma le sue parole non possono mai essere disgiunte dall’empatia, come in quelle – esposte come opere tra le opere – di Anna Maria Ortese sull’“uragano” che “sconvolse questa povera terra”.
Che tuttavia, come la canta Pier Paolo Pasolini, incrollabilmente amante, sogna respira spera “in fondo al cuore di questi poveri viaggiatori: vivi, soltanto vivi, nel calore che fa più grande della storia la vita”.

Diana Gianquitto

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Diana Gianquitto

Diana Gianquitto

Sono un critico, curatore e docente d’arte contemporanea, ma prima di tutto sono un “addetto ai lavori” desideroso di trasmettere, a chi dentro questi “lavori” non è, la mia grande passione e gioia per tutto ciò che è creatività contemporanea.…

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