Fotografare con gli occhi. Intervista a Mimmo Jodice

Il legame tra Mimmo Jodice e la sua città, Napoli, è la forza da cui traggono origine molte delle sue fotografie. Con lui abbiamo ripercorso una lunga carriera, scandita dalla fatica e dai grandi successi.

In attesa di definire i prossimi progetti espositivi bloccati in Italia e all’estero a causa dell’emergenza sanitaria, Mimmo Jodice (Napoli, 1934), fotografo italiano tra i più grandi del nostro tempo, si racconta nel suo studio a Napoli, nel quartiere Posillipo.
I suoi esordi hanno origine dapprima tra pittura e scultura, poi nella fotografia, in cui la cifra artistica si completa in camera oscura attraverso le sue mani fino a trovare la giusta luce e la giusta ombra per l’immagine perfetta. A Napoli, nel 1967 arriva la prima personale alla libreria La Mandragola, ma non sono mancati i momenti bui, soprattutto da giovanissimo; forte è, invece, il legame con la moglie Angela, “la mia compagna di tutte le esperienze”, precisa sorridendo tra un pensiero e l’altro con occhi mai stanchi.
Quelle esperienze di vita hanno fortificato il loro rapporto, da quando all’inizio il suo lavoro “nessuno lo voleva” e doveva pagarsi a rate le pubblicazioni, oppure l’unico lusso che potevano permettersi erano i libri di fotografia, ma soprattutto quando, per il forte senso di comunità e di denuncia, si iscrissero entrambi al Partito Comunista. Questo spinse Jodice a muovere i primi passi nella fotografia con le inchieste sul lavoro minorile, nelle fabbriche, nelle carceri e negli ospedali psichiatrici. Strappi, sovrapposizioni e collage erano gli interventi che, dopo aver stampato, segnavano il disagio e il disappunto del fotografo nei confronti di una società sempre più sofferente e per la quale ha sempre combattuto.
La fotografia di Jodice è l’hic et nunc del suo stato d’animo. Vedute di Napoli (1980), La città invisibile (1990), Mediterraneo (1995), fino ai progetti più recenti, nella fotografia di Mimmo Jodice fa tanto rumore la solitudine, di chi nel tempo ha saputo attendere con umiltà i numerosi riconoscimenti, come il premio Antonio Feltrinelli dell’Accademia dei Lincei di Roma nel 2003, la Laurea Honoris Causa in Architettura nel 2006 all’Università degli Studi di Napoli Federico II e nel 2011 invece, il Ministero della Cultura Francese gli conferisce l’onorificenza Chevalier de l’Ordre des Arts et des Lettres a Parigi.

Mimmo Jodice © Barbara Jodice

Mimmo Jodice © Barbara Jodice

INTERVISTA A MIMMO JODICE

Lei è nato nel quartiere Sanità, tra i più difficili sul territorio. Come è riuscito a emergere?
Non mi sono mai preoccupato di essere importante, mi sono sempre comportato in maniera spontanea. Non mi sono mai sentito un personaggio, per cui la Sanità è stato un quartiere dove ho vissuto l’infanzia, tutta la gioventù. È un ricordo importante, un compagno della mia vita. Il quartiere è sempre stato ricco di storia e personalità e oggi sta cambiando molto con progetti straordinari; il fatto di appartenere proprio a questa realtà mi ha convinto a non lasciare Napoli.

Come ricorda quel periodo?
Sono nato nel 1934 e da ragazzo non ho potuto studiare perché ho iniziato a lavorare a dieci anni, quando mio padre muore e mia madre resta sola con i miei fratelli piccoli. Poi, a causa della guerra, siamo rimasti veramente distrutti. In età adulta, invece, quando iniziai a guadagnare di più, la sera frequentavo le scuole serali e di nascosto seguivo i corsi all’Accademia di Belle Arti. Il mio è stato un percorso molto difficile che ho pagato terribilmente; mi avrebbe fatto tanto piacere studiare arte. Ma, alla fine, la storia del mio passato si è conclusa con l’insegnamento proprio all’Accademia quando, nel 1970, il direttore Franco Mancini mi diede l’incarico per chiari meriti come docente di un corso sperimentale dedicato alla fotografia. Il primo in Italia. Parteciparono oltre cinquecento studenti e dal 1975 diventò un corso annuale di fotografia in tutte le Accademie di Belle Arti in Italia. Ho insegnato con grande passione per circa venticinque anni a Napoli.

MIMMO JODICE E NAPOLI

Lei ha documentato l’aspetto antropologico di Napoli: dai volti delle persone alle feste della cultura locale con Roberto De Simone. Cosa ricorda di quel periodo?
Con Roberto De Simone è stata un’esperienza ricca di emozioni durata circa cinque anni. Entrambi eravamo giovani ed erano per noi i primi approcci di lettura antropologica della Campania, quindi abbiamo vissuto insieme momenti bellissimi realizzando i nostri progetti, lui con la musica e io con le immagini. Con la prefazione di Carlo Levi, nel 1974 abbiamo pubblicato il volume Chi è devoto, dedicato alle feste popolari e ai rituali religiosi. È stato un vissuto molto forte.

Secondo lei, la fotografia di Napoli com’è cambiata nel tempo?
La città non è cambiata molto perché per me Napoli è ancorata alla sua realtà che viene da lontano: il centro antico conserva tracce storiche uniche al mondo. Ho cercato di non lasciare la città perché è stata per me una fonte di ispirazione importante, mi ha dato momenti di grande emozione.

Per vari aspetti Napoli non è una realtà semplice. Non ha mai pensato seriamente di andare via?
Ci ho provato! Quando la nostra casa fu danneggiata dal terremoto del 1980, vivemmo per un certo tempo nella nostra roulotte (eravamo campeggiatori), ma la situazione a Napoli diventò davvero insostenibile, così – spinto da mia moglie – andai a Milano. Ci rimasi una settimana. Quando tornai, le dissi che avrei dormito per terra, in una roulotte o sotto un portone pur di restare a Napoli.

Le hai fotografato Pompei antica. Attraverso i suoi progetti come Pompei. Parole in viaggio (2010) si rivive una sorta di Grand Tour contemporaneo.
Oltre al Monte Faito, Pompei è il mio luogo del cuore! Sin da giovane ho avuto un legame molto forte con la città antica, a cui ho dedicato diverse pubblicazioni. Da subito mi sono abbandonato in questa realtà di 2000 anni fa. Pompei non l’ho mai vista come un reperto antico, ma una realtà che ho vissuto con grande amore. Una città viva!

Mimmo Jodice, Les yeux du Louvre, 2011 © Mimmo Jodice

Mimmo Jodice, Les yeux du Louvre, 2011 © Mimmo Jodice

MIMMO JODICE E LA FOTOGRAFIA

Quando nasce l’ispirazione per uno scatto? Al momento oppure parte da un’idea?
Di solito parto da un progetto. Arrivo sul luogo e osservo, senza scattare, fino a quando la luce non è perfetta. Solo quando mi sento vicino a quello che vedo arriva lo scatto. Tutte le foto che ho realizzato mi appartengono perché sono emozioni vere che riporto sulla carta, sono cose che vivo. Nella mia fotografia ci sono due cose importanti: il progetto e l’attenzione assoluta per la luce. Non sono mai andato in giro con la macchina fotografica al collo, ho sempre fotografato quando avevo già dei progetti, ma oggi vorrei avere tutte le foto che ho fatto con gli occhi. Vorrei tanto averle fatte, mi piacerebbe recuperarle in qualche modo dalla memoria.

C’è stata un’occasione in cui ha deciso di non scattare una foto?
Se la luce non è buona, non scatto! La macchina fotografica sono i miei occhi e, quando mi sono sentito dentro a un’immagine prima come persona e poi come fotografo, ho fermato quel momento. Uno dei libri a cui ho lavorato con grande impegno circa quarant’anni fa è stato Vedute di Napoli: una realtà napoletana spogliata dalla presenza umana, invasa dal silenzio in una dimensione fuori dal tempo, che sembra raccontare la realtà che stiamo vivendo oggi a causa del Covid-19. L’ho vissuta così Napoli, sembrava che aspettasse me quel silenzio, quella realtà sospesa fuori dalla vita.

Una Napoli inedita, insomma.
Di solito i fotografi che vengono a Napoli fotografano la vita napoletana, l’aspetto popolare, io invece mi sono trovato a vivere una realtà metafisica. Napoli è stata sempre vista e apprezzata per il suo calore umano mentre io, ispirato alla grande pittura astratta dei pittori del Novecento, andavo in giro progettando la mia visione di città vuota. Vedute di Napoli è quindi l’immagine più vera che sentivo della città e ho voluto vederla ripulita, silenziosa, astratta. Questo è stato uno dei primi lavori, un punto di partenza.

Mimmo Jodice, Taglio, 1978 © Mimmo Jodice

Mimmo Jodice, Taglio, 1978 © Mimmo Jodice

MIMMO JODICE ALL’ESTERO

Lei è molto amato anche all’estero, in particolare in Francia, dove è stato accolto sin da subito con tanto affetto. Tra i progetti che ha realizzato c’è la mostra Les yeux du Louvre nel 2011 a Parigi, al Louvre appunto.
Il primo invito importante dall’estero arrivò proprio dalla Francia, dove ho lavorato dal 1984 in molte regioni. Tanti i progetti, come le mostre alla MEP – Maison Européenne de la Photographie di Parigi, e ho dedicato alla città il volume Paris: City of Light (1998); nel 2002, con Silenzio, ho esposto la mia ricerca sul mare al Musée de la Mer a Cannes e poi ad Arles per Les Rencontres Internationales de la Photographie e poi al Musée Réattu. In Francia mi hanno amato da subito, la mostra al Louvre è stato un incoronamento.

Come è nato il progetto espositivo a cura di Marie-Laure Bernadac, direttrice per l’Arte Contemporanea al Louvre?
Avrei dovuto realizzare un lavoro sull’archeologia, come è stato per Mediterraneo ma, dopo aver trascorso intere giornate nel museo, ho pensato di far dialogare il passato e il presente attraverso i volti delle persone che lavorano lì con i ritratti delle grandi tele di Raffaello, Delacroix, Leonardo, Delaroche, David e altri. Dal direttore al guardiano, al Louvre lavorano circa 1.500 persone, che ogni giorno si incontrano e incontrano l’arte del passato, così nel mio progetto ogni volto è legato dagli occhi in continuità, posti sulla stessa linea ma in altezze diverse, creando così un dialogo alternato. Le Louvre vivant doveva essere il titolo della mostra, ma il direttore Henri Loyrette, guardando quegli occhi intensi, senza esitare propose Les yeux du Louvre.

Con Mimmo Jodice. Attesa/Waiting (dal/from 1960), a cura di Andrea Viliani, il Museo Madre ha ospitato nel 2016 la più grande retrospettiva a lei dedicata. Quali momenti ricorda di quella esperienza?
La mostra, con oltre 3mila ingressi, è stata la più visitata al Museo Madre, con un percorso espositivo di circa duecento opere suddivise in diverse sezioni. Nel 2018 è stato presentato il volume monografico nato dalla mostra antologica: è un riferimento importante di tutto il lavoro svolto nella mia carriera, che resta nel tempo, perché ripercorre la storia stessa della fotografia. Sono molto grato ad Andrea Viliani per questo grande progetto dedicato alla mia produzione dal 1960 al 2016. Ricordo ancora con affetto la sua visita al mio studio.

Quale potrebbe essere un suo prossimo scatto?
Il vuoto. Dopo l’Attesa, mi sto concentrando sull’Assenza, un tema molto sentito e che mi ha accompagnato in tutti i momenti della mia vita.

Fabio Pariante

www.mimmojodice.it

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Fabio Pariante

Fabio Pariante

Docente e giornalista freelance, è laureato magistrale in Lingue e Comunicazione Interculturale in Area Euromediterranea con tesi in Studi Interculturali dal titolo "La Primavera Araba nell’era del web 2.0: il ruolo dei social network". Nel 2011, con il patrocinio della…

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