La vita fantasma. Giorgio Morandi e la scelta della solitudine

La dimensione vaporosa, evanescente ma ingombrante della pittura di Morandi è protagonista del nuovo capitolo della rubrica dedicata alle opere del passato che aiutano a leggere le complesse dinamiche attuali.

Nel momento storico maggiormente indicativo della solitudine, dell’alienazione, dello straniamento e, da molti punti di vista, del dolore più tangibile dell’epoca recente, gli esseri umani, proprio in quanto umani (e dunque dotati della capacità di vivere, amare e reinventarsi, Nodo alla gola, Alfred Hitchcock, 1948), hanno riscontrato tra e per loro stessi un forte incremento di esigenze consolatorie ed emotive che si sono manifestate durante tutto l’arco dell’interminabile fase disastrosa sancita dal Covid-19, con maggiore o minore convinzione. Questa problematica delle nostre vite, entrata a gamba tesa nelle nostre esistenze in ogni attimo della nostra quotidianità, infatti, tra le infinite connotazioni negative di cui è stata (mal)sana portatrice, si è però rivelata foriera di tutta una inconsueta e tenera serie di nuove piccole dinamiche su noi stessi che non ci aspettavamo di poter incontrare e in cui non pensavamo di poter mai, per quanto dolcemente, inciampare.
Inciampare in un problema, dunque, per quanto grande esso si sia manifestato, ci ha portato, però, volendo a tutti i costi trovare un lato positivo in questa triste vicenda, a precipitare inconsapevolmente, a nostra volta, dentro un mare di potente emotività, di fragile profondità, di traballante sentimentalità che non credevamo potesse essere nelle nostre corde. Gesti di solidarietà imprevista, immersione nella comprensione reciproca, tolleranza vicendevole e tutta una serie di agiti e pensieri che avessero a che fare con l’immedesimazione, la comprensione e la clemenza, la comprensione, la condiscendenza e l’indulgenza per il prossimo, hanno iniziato a farsi strada nelle nostre vite, forse per la mummificazione della routine o forse per la profonda comprensione della problematica più trasversale, paritaria e totalizzante che l’Umanità si è trovata ad affrontare nella sua storia recente, con pazienza e condivisione verso il prossimo sconosciuto (e non).

LA PANDEMIA E LA RISCOPERTA DELL’EMOTIVITÀ

Le reazioni a tutto questo, inoltre, si sono manifestate nelle più varie delle modalità possibili: ricerca di verità interiori, esplorazioni in noi stessi, viaggi e percorsi mentali di ausilio al prossimo e alla propria stessa autonomia, cammini all’interno di emotività e spiritualità che ci appartengono ma che erano ignorate e configurazioni personali ‒ che hanno a che fare con la profondità delle cose ‒ tutte improntate a quel senso di solitudine, di pericolo, di isolamento a cui le contingenze dell’esterno ci hanno costretti ‒ tutti ‒ per tutelare la nostra vita.
A un certo punto, poi, abbiamo addirittura iniziato a fare l’abitudine a questi sentimenti e a queste modalità che, in fondo, ci vedevano affrontare innanzitutto noi stessi e, in mancanza dell’esterno, l’interno è stato tutto quanto ci restava da rinfoltire, nutrire, allevare. Il rifugio nella poesia, nell’arte, nella lettura, nel cinema, nella meditazione è stato ciò che abbiamo alimentato e coltivato trovando ostello in quell’ambito concettuale che è il pensiero, l’intelletto, la cultura. Si potrebbe addirittura arrivare ad asserire che, sebbene da un certo momento in poi siamo arrivati a farlo addirittura senza accorgercene, la stragrande maggioranza delle operazioni e delle azioni che abbiamo svolto e portato avanti durante i mesi della quarantena e della latitanza della tanto agognata normalità hanno avuto quasi tutte a che fare con l’astratto, con l’inafferrabile, con lo sfuggente; in una parola: la ragione.
E la ragione, l’emozione, la lucidità, fortunatamente, sebbene in un periodo buio come questo, ci hanno consentito di viaggiare e spaziare con la mente per luoghi e mondi sconosciuti senza che vi fosse la vera, autentica e riconosciuta libertà a consentirlo fisicamente, pur dovendo rimanere entro il perimetro, il confino, delle nostre abitazioni. Questo è stato possibile grazie all’esplosione interna di desideri altissimi che, con il solo fatto di avvenire e tambureggiare, ci hanno conferito la possibilità di intravedere vie d’uscita, spiragli di fuga, prospettive di scappatoia, da una reclusione (forzata ma necessaria) che ha donato ai nostri giorni la potentissima missione semplice di iniziare a fare caso alla semplicità, alla ordinarietà̀, alla domesticità delle cose che, causa forza maggiore, hanno iniziato a circondarci e all’interno delle quali, poi, abbiamo iniziato a intravedere non solo una dolce dimora in cui soggiornare per porci al riparo dal terribile del fuori, ma anche ‒ per i più fortunati ‒ un meraviglioso vascello su cui salpare per non morire lentamente.

Giorgio Morandi, Natura morta, 1956, olio su tela, 40,5 x 35,4 cm, Mart, Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto, Collezione Augusto e Francesca Giovanardi

Giorgio Morandi, Natura morta, 1956, olio su tela, 40,5 x 35,4 cm. Collezione Augusto e Francesca Giovanardi

LA PITTURA DI MORANDI OGGI

Ed è lì, proprio lì, alla porta d’ingresso di questa abitazione che non c’è, che non esiste, che ci ha aperto, sorridente, comprensivo, saggio e precursore, il suo custode, Giorgio Morandi: il più enorme depositario, difensore, garante, paladino, tutore e vestale di questi luoghi della mente in cui siamo stati accettati.
Il Maestro bolognese, insomma, ci ha aperto la porta e ci ha accolto, con tanto di pacca sulla spalla e un sorriso (che sembrava voler dire “non sarei mai voluto arrivare a quel giorno, ormai giunto, in cui avrei dovuto dirvi io ve lo avevo detto”, come fece Michael Caine nei panni di Alfred Pennyworth, maggiordomo di Batman nel film The Dark Knight Rises, 2012), in quel mondo della solitudine scelta, autoimposta, piena di Dio, a tratti serena e a tratti lieta, che ci appariva come il posto maggiormente consolatorio raggiungibile in quel tempo del divieto più cieco e severo. E quando si parla di consolazione, si badi, non si deve intendere solo e unicamente quel moto di rilancio emotivo e spirituale attraverso il quale gli effetti sulla nostra persona si manifestano con nuovi slanci interiori volti al conforto e allo scongiurare allarmanti ipotesi di depressione ma, anche, quell’etimologicamente inappuntabile movimento di aggregazione, di unione, di tante, tantissime, molteplici solitudini tutte accomunate dall’essere rimaste, sì, irrisolvibilmente sole anche se, adesso, tutte assieme: senza perdere la propria individuale e autonoma condizione solinga, insomma, pur appartenendo a un gruppo ormai; insomma tutto ciò che si può immaginare unendo il suffisso con e la desinenza solus. Una barca, un vascello il cui destino, triste o radioso che sia, democraticamente unisce tutti.
All’interno delle mura di questa domus, insomma, Giorgio Morandi ha trascorso la maggioranza del tempo della sua vita guardando gli oggetti semplici che lo circondavano, analizzandoli, assorbendoli e, attraverso l’arte e la pittura, rilasciando al mondo la loro propria complessità. Tutta l’opera estetica e artistica di Giorgio Morandi sembra essere imperniata attorno a quella assoluta e incontrovertibile, per quanto sfuggente, verità, secondo la quale il semplice non è sinonimo di elementare e, ancora, difficile non sembra c’entrare alcunché con complesso. Tutti gli oggetti ‒ semplici ‒ su cui l’artista ha proiettato le proprie attenzioni ed energie per tutta la vita, infatti, sembrano non nascondere tutto il complesso che le caratterizza e, oltretutto, sbaragliare l’elementare ‒ considerato mortificante ‒ o il difficile (considerato ingiustificato). La semplicità potentissima degli oggetti e delle nature morte di Giorgio Morandi porta con sè tutto l’invisibile ‒ di heideggeriana memoria ‒ delle nostre vite, dei nostri tormenti, delle nostre paure e ce lo ricorda, ce lo erutta in faccia, attraverso la infermabile carica della purezza delle linee, della chiarezza quasi primordiale delle forme, della riconoscibilità quasi preculturale dei volumi e dei solidi che si compongono, vaporosi, innanzi a noi. Sembrano tutte avere a che fare con l’origine del mondo, con l’atavico e l’ancestrale (sebbene frutto di un progetto umano), le geometrie pulite e nobili del Maestro emiliano. Sembrano avere a che fare con le nostre radici più lontane, più semplici appunto e, infine, con quello scrigno di concetti sussurrati che accarezzano perennemente il concetto di verità.

MORANDI E LA RAPPRESENTAZIONE DELLA SOLITUDINE

Giorgio Morandi scrisse: “Si può viaggiare per il mondo e non vedere nulla. Per raggiungere la comprensione è necessario non vedere molte cose, ma guardare attentamente ciò che vedi”; laddove per “vedi” s’intende quell’elemento, da lui burrosamente, vaporosamente e imponentemente descritto che porta dentro e fuori di sè sia il visibile che l’invisibile. Al pari di come van Gogh, nel dipingere le “scarpe dei contadini”, non voleva darci informazioni sulla qualità materiale di quelle scarpe o sul loro sfigurato stato di usura, volendo invece riportarci alla fatica, all’indigenza, al sacrificio, al dolore, di una classe dilaniata dal lavoro e dalla miseria, così Giorgio Morandi conferisce dignità alle forme semplici facendole diventare sinonimo di altro da loro, ovvero di vita, di originario, di origine e, infine, di esistenza stessa: raffigurando apparentemente bottiglie e vasi, è vero, ma volendo significare tutta quella profondità della condizione di solitudine irreversibile delle nostre vite; anche quando tutto sembra essere una festa che, a ben perlustrare, assomiglia a quella insensata e sconclusionata descritta molti anni dopo da Milan Kundera (La festa dell’insignificanza, 2013).
Nella materia di Giorgio Morandi esiste Dio, insomma: ma non in qualità di semplice e religioso elemento in cui rifugiarsi in risposta ai nostri dubbi quanto, viceversa, sotto le sembianze di Creatore delle forme e del gioco della vita che non illumina soluzioni ma, semplicemente, suggerisce nuove e sconfinate domande. Al pari di Dio, infine, Giorgio Morandi è un classico delle condizioni artistiche ed estetiche, delle tematiche e delle emozioni, così come eterne rimarranno, in conclusione, tutte le nostre angosce inerenti la più inafferrabile tra le domande e, anche, tra le risposte: la condizione umana. Oggi, forse, semplicemente più mortificata che mai.

Luca Cantore D’Amore

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Luca Cantore D'Amore

Luca Cantore D'Amore

Luca Cantore D’Amore (Salerno, 1991) consegue tre corone d’alloro: in Architettura d’interni e Interior Design, al Politecnico di Milano, e in Storia dell’Arte. Si occupa di storia e critica dell’arte, scrivendo articoli di giornale, testi per riviste di settore e…

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