Gli Anni Dieci stanno finendo. Cosa resterà nell’arte?

Allo scadere di questo secondo decennio del nuovo secolo, facciamo il punto sugli Anni Dieci (la decade che intercorre tra 2010 e 2019), cercando di capire cosa ci hanno lasciato da un punto di vista culturale. Con le voci di scrittori, critici, filosofi, artisti, antropologi e curatori.

STEFANO CHIODISTORICO DELL’ARTE

Stefano Chiodi

Stefano Chiodi

Gli storici insegnano che non si può pensare come pensavano i nostri antenati né tantomeno immaginare come i posteri guarderanno al nostro presente. Il futuro ci giudicherà in modi totalmente imprevedibili. Preferisco dunque, anziché fornire una impossibile profezia, formulare un augurio: che dell’arte degli Anni Dieci non rimanga il moralismo, la postura pedagogica, l’attitudine predicatoria, la banalità, la ripetitività dei temi e delle immagini, il feticismo per l’archivio, il narcisismo identitario travestito da coscienza politica, il puritanesimo, la seriosità, la noia: la mancanza di qualsiasi presa di rischio, soprattutto. Dico arte per dire pratica dell’arte e insieme curatorship, perché mai come nel decennio che sta per chiudersi è apparso evidente quanto questi siano due momenti di una medesima azione.
Sullo sfondo, un dilemma che non svanirà facilmente: la sempre più paradossale condizione degli artisti, produttori consapevoli di merci sofisticate e insieme delegati alla sovversione del sistema in cui si candidano a essere accolti.

STEFANO ARIENTI ‒ ARTISTA

Stefano Arienti. Photo credit Anna Positano   Opfot.com. Courtesy of the artist

Stefano Arienti. Photo credit Anna Positano Opfot.com. Courtesy of the artist

Artisticamente gli Anni Dieci sono incredibilmente pieni: mai si è vista una offerta così abbondante e proveniente da tutte le parti del mondo. Ma è anche una decade di conclamata globalizzazione della cultura, che segue quella della finanza e dei mercati, con il risultato di una spinta molto forte all’omologazione.
La ragnatela internazionale della curatela tenta di cucire tutto in un sistema il più possibile aperto e plurale, ma le rigidità delle grandi concentrazioni economiche imbrigliano il panorama in una gerarchia estrema: poche cose al vertice, poche linee di mercato, sempre iper-presenti, e si lascia un piccolo spazio a chiunque, purché rimanga ininfluente. Mai si è vista un’arte così opulenta e di rappresentanza, estremamente sofisticata e ben eseguita, precisa, intelligente, arguta. Un perfetto specchio del potere. Ma questo è un ritorno di “belle époque”, un tempo dove non è mai stato così conveniente essere super ricchi. Infine, se finora la vera lingua dell’impero sembra solo l’inglese, ci dobbiamo presto abituare al cinese, che da millenni è al vertice di potere e cultura.

FRANCO LA CECLA ‒ ANTROPOLOGO

Franco La Cecla

Franco La Cecla

Dal punto di vista dell’antropologia e dell’arte, che poi è quello che mi interessa, c’è stato un incredibile avvicinamento. Le narrazioni artistiche e le narrazioni antropologiche si sono molto cercate. Artisti antropologi da un lato e dall’altro l’arrivo di una gran quantità di “fieldwork” soprattutto in area amazzonica sulle pratiche artistiche e sulla “agentività” degli oggetti e delle opere. C’è stato un grande arricchimento nel campo della Storia dell’Arte nei confronti dei contesti culturali e una capacità di lettura della relazione tra agenti, stravolgendo l’idea del museo e del pubblico. Tutto ciò è avvenuto fuori dall’Italia, mentre da noi il dibattito è rimasto ancorato a vecchie categorie, e a pruderie politically correct, post-colonial, post-modern, post-mortem. Nessuno ha tradotto Alfred Gell in Italia, forse l’opera più rivoluzionaria nel campo della Storia dell’Arte degli ultimi trent’anni.
In generale negli ultimi dieci anni il mondo è diventato più interrelato nel bene e nel male, e questo ha provocato una reazione di coloro che vi vedono solo una perdita di poteri e di controlli. Visto che si vivono come perdenti della globalizzazione, alla fine lo saranno.

DOMENICO QUARANTA ‒ CURATORE

Domenico Quaranta

Domenico Quaranta

Domande di questo tipo ti costringono a dover scegliere tra il ruolo della Cassandra e quello del Candido, tra una sfacciata parzialità e un senso di responsabilità. Provo a cavarmela con una lista. Resteranno i populismi e i trumpismi, che spero avranno almeno il merito di sollecitare un’arte più politica, meno conformista e più umana. L’umanesimo è una prospettiva necessaria per resistere alle minacce tecnologiche degli Anni Dieci: quella di un Internet divenuto spazio di controllo totalitario e di intelligenze artificiali così evolute da far riemergere gli incubi della singolarità.
Ma, nel XXI secolo, l’umanesimo non può che essere un tecno-umanesimo, che usa i linguaggi digitali come mezzi di critica, resistenza e rappresentazione: resteranno, dunque, l’ingegneria critica e quella nuova sensibilità nei confronti delle problematiche tecnologiche introdotta dal post Internet, che non avrà, ovviamente, l’aspetto del post Internet. Resterà, anche grazie a Rhizome, un bel po’ di Net Art.

MATTEO LUCCHETTI ‒ CURATORE

Matteo Lucchetti

Matteo Lucchetti

Mi piace rispondere a questa domanda partendo dall’oggi, o meglio dall’altro ieri, quando a Kassel durante una conferenza stampa è stato annunciato che il prossimo curatore di Documenta 15 sarà un collettivo di artisti indonesiani, i Ruangrupa. Artisti con cui ho avuto il piacere di collaborare sia nel 2013 che nel 2017, entrambe le volte in Olanda, che mettono al centro della loro pratica aperta e partecipativa il cambiamento sociale, attraverso la costruzione di comunità e di nuovi immaginari.
Parto da questa piccola notizia, rivoluzionaria di per sé per il mondo dell’arte, per dire che quello che per me resterà è una sana e significativa diffusione a livello globale di pratiche artistiche socialmente impegnate, ieri relegate ai margini, oggi onnipresenti. Le conseguenze della prima globalizzazione furono nazionalismi totalitari, sfruttamento coloniale e i conflitti mondiali. Una miriade di artisti sta contribuendo a una sorta di movimento non annunciato e transnazionale, che rende l’arte capace di prendere parte a trasformazioni sociali in grado di mostrare scenari per i quali la seconda globalizzazione non conduca agli stessi errori della precedente.

SILVIA GIAMBRONE ‒ ARTISTA

Silvia Giambrone

Silvia Giambrone

Lino Banfi commissario dell’Unesco. Così si ratifica la crisi dell’iconicità delle immagini. La progressiva e lenta degenerazione della capacità di rappresentare delle cose. C’è stato un tempo nel quale, per una sorta di contratto collettivo o più semplicemente un diffuso atto di fede, le cose erano legate alle loro immagini, ai loro nomi. Era una convenzione su scala mondiale e per un certo periodo ha funzionato, seppure mai del tutto. Non più, non le “cose”, disgraziéte maledette, perché quella odierna è una metafisica orfana. Se a quelle cose, ancora oggi, si ancorassero a nomi e immagini, nominare Lino Banfi commissario dell’Unesco significherebbe scegliere una icona della produzione di immagini più sessista che la cinematografia italiana abbia conosciuto. Non Lino Banfi come persona, misteriosa e complessa come tutte le altre sul pianeta, ma quel che ha rappresentato nell’Immaginario italiano.
C’è stato un tempo in cui l’Immaginario era qualcosa da controllare, da temere, e che ha richiesto di essere liberato con rabbia, con una rivoluzione addirittura. Pensavo toccasse alla mia generazione trasformare quella rabbia in attenzione, in cura, in libertà, non solo in denaro. C’è stato un tempo per la democrazia rappresentativa, quando alcuni rappresentavano altri. Ora è tempo che ognuno parli per sé e così, insieme alle cose, ognuno è finalmente orfano dell’altro.

NICOLA LAGIOIA ‒ SCRITTORE

Nicola Lagioia

Nicola Lagioia

Il secondo decennio del XXI secolo ha portato a termine il lavoro del primo: chiudere definitivamente con lo “sciopero degli eventi” durato per tutti i Novanta. Negli Anni Dieci abbiamo intonato l’ultimo requiescat al postmoderno e siamo tornati a occuparci di una realtà che è molto diversa da quella di prima. Questo vuol dire che, sul piano letterario, resterà più Marilynne Robinson che David Foster Wallace, più Michel Houellebecq che qualunque neoavanguardia, più Elena Ferrante, Karl Ove Knausgård e Walter Siti che Jonathan Safran Foer. Sul piano cinematografico resteranno le opere di registi come Pablo Larraín e Paul Thomas Anderson: la dimostrazione che i fatti precedono le interpretazioni, ma il realismo è una lente troppo debole per indagare la realtà. Alla fine degli Anni Dieci, un artista come Anselm Kiefer sembra un gigante messo accanto a Damien Hirst.
La vera strada per il futuro è tuttavia tracciata dalle opere di autori come Jared Diamond, Masha Gessen, Yuval Noah Harari: il mondo è diventato un posto così complicato che solo la commistione tra antropologia, linguistica, genetica, cibernetica, filosofia, umanesimo può sperare di afferrarlo. La vera notizia è che siamo entrati nell’Antropocene. Il problema è che solo un serio e profondo scarto dall’antropocentrismo, per come l’abbiamo conosciuto negli ultimi tre secoli, potrà evitare un disastro.

LEONARDO CAFFO ‒ FILOSOFO

Leonardo Caffo

Leonardo Caffo

Resta il linguaggio. La commistione di generi, la fine dell’interdisciplinare e l’inizio dell’approccio a macchia di leopardo rispetto alla contaminazione dei saperi. Resta il senso di confusione per un periodo pieno di informazioni e poca organizzazione; restano alcuni artisti che si sono consacrati giganti nell’interpretare alcune questioni che la filosofia ha lasciato irrisolte, come Ed Atkins o Paloma Varga Weisz, resta anche una buona “rosa” di italiani giovani che faranno parlare di loro negli Anni Venti (esempi: una donna, Elena Mazzi; un uomo, Luca De Leva).
Resta che la curatela è diventata una disciplina essenziale per l’arte, e che senza il punto di vista sul reale il reale scompare, e così restano anche le istituzioni che di questa disciplina dovranno fare tesoro. Resta che tanta ricerca, filosofia compresa, si è risolta nelle immagini e resta soprattutto, a mio avviso, che l’unica chance di cambiamento radicale dell’immaginario è nell’anticipazione di mondi che mi pare l’unica vera cifra stilistica di ciò che abbiamo chiamato “contemporaneo”.

LORENZO BRUNI ‒ CURATORE

Lorenzo Bruni

Lorenzo Bruni

Le ricerche dei dieci anni precedenti si stanno stabilizzando in un mondo in cui l’economia produce “servizi” e non oggetti e i social media portano alla privatizzazione dello spazio pubblico (filosofia del selfie). Gli artisti già attivi dai primi Anni Zero – che hanno agito sulla memoria collettiva e sugli archivi – in quest’ultima decade hanno adottato una pratica archeologica con la quale indagare i frammenti del nostro presente. La generazione di poco successiva ha invece portato avanti quest’approccio confrontandolo con le nuove implicazioni delle tecnologie digitali. Parallelamente a queste vicende, i “nativi digitali” a livello artistico si sono concentrati a livello formale sulla riflessione dell’eredità dell’astrazione geometrica, calandola però nel perimetro degli “schermi luminosi”. Inoltre, già nell’ultimo anno si registra, in questo ambito, l’emergere di domande attorno all’eredità dell’immaginario pop.
Indipendentemente da queste precisazioni, l’arte degli ultimi dieci anni analizza, subisce o reagisce alla tendenza generale del mondo politico (dall’Italia dei Cinque Stelle a Trump), dell’economia globale, del mondo scientifico impegnato nel verificare le idee del secolo passato e quello legato all’istruzione, che punta a rendere il modello meta-narrativo come una regola per interagire con la realtà.

Santa Nastro

Articolo pubblicato su Artribune Magazine #49

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Santa Nastro

Santa Nastro

Santa Nastro è nata a Napoli nel 1981. Laureata in Storia dell'Arte presso l'Università di Bologna con una tesi su Francesco Arcangeli, è critico d'arte, giornalista e comunicatore. Attualmente è vicedirettore di Artribune. È Responsabile della Comunicazione di FMAV Fondazione…

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