Lo spettacolo teatrale ispirato alle migrazioni americane

È un’opera intensa, spesso grave, umana e disperata quella messa in scena da Massimo Popolizio a partire dal romanzo “Furore” di John Steinbeck. Una storia che mantiene intatta la sua attualità

Una scenografia essenziale accoglie il pubblico. Su un palcoscenico ricoperto di terra, una macchina da scrivere e dei fascicoli in disordine. In scena il polistrumentista Giovanni Lo Cascio, che esegue le musiche dal vivo come se dirigesse un’orchestra per la varietà, la profondità e la nitidezza dei suoni che produce. Con lui un incommensurabile Massimo Popolizio, attore che, con il solo e portentoso suono della voce, è capace di evocare popoli, atmosfere e mondi.
Furore di John Steinbeck racconta una storia violenta, cruda e scomoda, troppo spesso trascurata. Tutto parte dal passaggio, durante la Grande Depressione, da un’economia di mezzadria al capitalismo, sistema in cui l’uomo viene declassato a fattore del bilancio, dominato da entità superiori, mostruose e disumane: le banche e la borsa; e il profitto diventa l’unico credo, in nome del quale si è disposti a sacrificare tutto. In primis il capitale umano.
Popolizio, che non lascia nulla al caso, nell’efficace adattamento di Emanuele Trevi (Premio Strega), potenziato dalle suggestive creazioni video di Igor Renzetti e Lorenzo Bruno, arricchite dalle fotografie originali di Dorothea Lange e Walker Evans, affronta in modo poetico questo capitolo nero della storia americana e mondiale: la più devastante migrazione di contadini della storia moderna, avvenuta dagli stati centrali, come l’Oklahoma e l’Arkansas, alla California, intorno al 1936.
Impossibile non pensare alla scottante e dolorosa attualità. Quei contadini, disposti a rinunciare a tutto per attraversare il Paese sulla mitica Route 66 a bordo di macchine scalcinate che, molto probabilmente, non sarebbero mai giunte a destinazione, carichi di speranze e ideali, ci riportano con la mente alla migrazione attuale. Anche oggi come allora, invece di trovare ospitalità e lavoro, in Italia e in Europa, i migranti trovano spesso sfruttamento, discriminazione, emarginazione e violenza.

Massimo Popolizio. Furore. Photo Federico Massimiliano Mozzano

Massimo Popolizio. Furore. Photo Federico Massimiliano Mozzano

FURORE DI MASSIMO POPOLIZIO

Lo spettacolo, rimanendo fedele al libro, procede per capitoli, indagando le cause naturali ed economiche che hanno originato la crisi e le relative conseguenze. La prosa, che raggiunge livelli di lirismo altissimi, senza mai perdere il realismo, cambia il registro linguistico a seconda del tema trattato. In riferimento alla terra, il lessico si fa antropomorfo in modo inquietante. Il trattore prende vita e si trasforma in un essere che non ara la terra ma la rimuove chirurgicamente. Per descrivere la semina artificiale si parla di “orgasmi che violano le zolle senza passione”. Al contrario, il sogno californiano è reso attraverso termini che creano immagini di abbondanza, prosperità, nascita, come il “cuore dei germogli che si gonfia e prende forma”. Nel capitolo sulla tartaruga, il vocabolario diventa onomatopeico e si arricchisce di suoni musicali, virtuosismi fondamentali per concedere al pubblico un sorriso, un momento di distensione – seppur velata di angoscia – nell’arco dello spettacolo. Infine, quando la parola va alle persone, il tono e l’intensità cambiano a seconda del personaggio interpretato. Sprezzante, arrogante e indifferente quello dei padroni; dimesso, rassegnato e umile quello dei migranti, costretti a vivere ormai privati delle loro vite.

Massimo Popolizio. Furore. Photo Federico Massimiliano Mozzano

Massimo Popolizio. Furore. Photo Federico Massimiliano Mozzano

MIGRAZIONI IERI E OGGI

Sebbene lo spettacolo abbia una durata di 75 minuti, tocca in modo approfondito e pungente gli aspetti essenziali del volume, scritto da Steinbeck dopo i tre anni di ricerche condotti sullo stato dei lavoratori agricoli in California, cogliendo le complesse dinamiche alla base del capitalismo, individuando gli ingranaggi deboli e le falle del sistema. Ma Furore di Massimo Popolizio si spinge ancora oltre, perché, traslando le vicende dal personale al corale, ne universalizza il senso, permettendo agli spettatori di immedesimarsi nei protagonisti dell’opera. Il processo è agevolato dal fatto che, grazie alle sue enormi capacità, l’interprete restituisce in modo pressoché tattile, per non dire fisico, le circostanze descritte: la polvere, la siccità, la miseria e poi la fame, l’umidità, il freddo.
Con il procedere dello spettacolo, si percepisce (e si condivide) il crescente “furore” covato dal proletariato agricolo nei confronti dei proprietari e del sistema che, però, di fronte all’ineluttabilità delle calamità naturali – che ancora ci riportano al presente – sembra lasciare spazio, in questa versione di Popolizio, a un altro sentimento, ugualmente ancestrale ma più umano: la pietas. Uno spontaneo prendersi cura che si concretizza tra i migranti nello spirito di condivisione; nel riconoscersi e formare delle comunità; nel senso di giustizia e nel rispetto dei diritti, seppur non codificati. Una pietas che trova la sua acme in due momenti essenziali del racconto: la morte dei bambini che devono avere degna sepoltura perché non hanno avuto altro dalla vita e la struggente scena finale che lascia andare via gli spettatori con un barlume di speranza nel cuore.
Massimo Popolizio tornerà in scena al Teatro Argentina con Uno sguardo dal ponte di Arthur Miller dal 14 marzo al 2 aprile 2023.

Ludovica Palmieri

https://www.teatrodiroma.net/

Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati

Ludovica Palmieri

Ludovica Palmieri

Ludovica Palmieri è nata a Napoli. Vive e lavora a Roma, dove ha conseguito il diploma di laurea magistrale con lode in Storia dell’Arte con un tesi sulla fortuna critica di Correggio nel Settecento presso la terza università. Subito dopo…

Scopri di più